martedì 29 marzo 2011
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La guerra, quella vera, la si è vista ieri al­le porte di Sirte. Perché è a Sirte, anti­camera della Tripolitania, che Ghed­dafi ha schierato i reparti speciali e allestito un contrattacco che potrebbe rompere il fronte di quella strana armata – non proprio un’armata Brancaleone, ma certo non eser­cito convenzionale – che fino a ieri ha con­dotto in modo più bizzarro che asimmetri­co la propria battaglia.Ieri notte a Bengasi ci ha svegliato un fitto fuoco di artiglieria. Ma era – si scoprirà poi – un fuoco festoso, di giubilo, perché da Est giungeva la notizia che Sirte era caduta. Ma tutti sappiamo come la verità sia sempre la prima vittima della guerra: e non c’è al-Ja­zeera che tenga, non c’è propaganda che fun­zioni quando metti i piedi sul terreno viola­to dalle esplosioni, quando ti scorre un na­stro lungo quattrocentocinquanta chilome­tri (tanti ne abbiamo fatti ieri mattina per raggiungere il fronte) tappezzato di rottami inceneriti di blindati, di carri armati, di can­noncini, auto civili rovesciate come scara­faggi rosolati al fuoco del deserto, e dovun­que silenzio, paesi svuotati, villaggi impalli­nati dai proiettili, niente luce, niente elettri­cità, niente cibo, la gente in fuga.Da Bengasi a Ras Lanuf, e poi ancora a Ben Jawad, a Nofilia, a Sitar, in quella terra di nes­suno dove ci siamo fin troppo orgogliosa­mente spinti, ogni legge è saltata, ogni re­gola sospesa. Di qua, centinaia di ragazzi con la kefiah e le bandiere della Libia liberata, di là il rombo sordo dell’artiglieria pesante, a ovest un flusso ininterrotto di volontari, pick-up con mitragliere, fucili automatici. La sensazione che si farà poi certezza che le bugie delle televisioni, le menzogne della propaganda, le fole che corrono nel vento a­rido del deserto della Sirte non sono che lo zucchero filato che ricopre questa guerra combattuta essenzialmente sull’autostrada, perché così è fatta la Libia, un nastro costiero da Tobruk alla Tunisia e dietro il Fezzan, i grande nulla, un Paese vuoto, desolato, di­sabitato, grande quattro volte l’Italia e con neanche sei mi­lioni di abitanti. Mezzo milio­ne dei quali in fuga.Dice Ossun, uno dei tanti che sbandiera il mitra, fa il segno di vittoria, ringrazia Allah e sputa su Gheddafi (una litania ormai consolidata a ogni po­sto di blocco): «Arriveremo a Tripoli, è sicuro. Basteranno due giorni e arriveremo». Non sarà così, questa guerra sghemba non avrebbe avuto la minima probabilità di suc­cesso senza il concorso deci­sivo della no-fly zone e senza le incursioni dei cacciabombardieri francesi e britannici, senza quei missili tomahawk che sfondano le lamiere corazzate dei carri armati, che fan­no saltare le torre dei blindati facendole vo­lare a trenta metri dal mezzo blindato, che scavano crateri di sei metri bruciando tutto quello che c’è attorno.Hamid, che ha già trentatré anni ed è di Ben­gasi, si proclama comandante di brigata: «Stiamo portando i nostri ragazzi migliori davanti a Sirte. È la battaglia più importan­te, lo sapete che Gheddafi viene da lì? Se ca­de Sirte cadrà la Libia». Più che una certez­za è una speranza, alimentata da chi torna indietro per riposarsi e per fare rifornimen­to. I gheddafiani rispondono con i missili Grad, vecchio ma sempre efficace arnese che tutto il Medio Oriente adopera, da Hamas e Gaza agli Hezbollah in Libano. Il combatti­mento si appensantisce a metà pomeriggio. Siamo costretti a riparare a Ras Lanuf, che un tempo dev’essere stata una città-giardino ad uso dei tecnici petroliferi. Ci sono ancora le aiuole con le margherite perfettamente po­tate, gli oleandri e l’ibisco, ma in compenso non c’è più nessun abitante, nessuna luce. E non un posto dove esser certi di poter es­sere al sicuro. Le incursioni della coalizio­ne hanno spianato in fretta la strada agli in­sorti: nello spazio di ventiquattro ore sono stati liberati 350 chilometri di strada, spo­stando il fronte a ridosso della Tripolitania. Con il risultato che se da qui, sul terreno, si capisce poco di cosa accada veramente a li­vello strategico, si capisce quasi tutto di com’è la fibra segreta di questa guerra, quel­la che nessuna televisione potrà mai mo­strare. Il lezzo dei pneumatici che bruciano, l’odore chimico delle bombe esplose, il rombo sordo delle esplosioni. E di nuovo siamo costretti a domandarci come abbiano fatto un pugno di ra­gazzi sui pick-up con qual­che lanciarazzi e alcune de­cine di mitragliatrici leggere ad avere ragione di un eser­cito, per quanto malandato ma pur sempre addestrato, come quello libico.A dire il vero un’ombra di or­ganizzazione fra queste mi­lizie di volontari rapidamen­te addestrati nelle ultime set­timane ci è sembrato di scorgerla. Un non­soché di efficienza, di metodo, come se a­vessero ingranato finalmente la marcia. «Non hanno fatto granché – malignavano due giorni fa i vecchi volponi di Bengasi –: tutti quegli spari notturni per festeggiare la presa di Sirte sono il massimo che hanno fatto. In realtà quelli non sparano neanche un colpo». Sembra inverosimile, eppure an­che questa è una versione che dobbiamo ri­portare. Scoprendo, come si è detto, che in effetti Sirte non è caduta e i cannoni di Gheddafi al contrario si fanno più vicini. E senza nasconderci che dei feriti e dei cadu­ti degli insorti sappiamo poco, per non di­re nulla: mai un’ambulanza, mai una sire­na. Impassibile, una mare azzurro come il co­balto mormora lieve a pochi metri da dove ci siamo rifugiati per scrivere. E una volta di più ci costringe a riflettere sull’insensatez­za delle guerre e sul quella banalità tragica e quotidiana di cui sono fatte, senza ombre di eroismo e senza gloria per nessuno. Ma sono cose, queste, che si sapevano anche prima. Ora però è tempo di inviare questo articolo. Prima che si spenga il computer.
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