domenica 8 maggio 2022
Le corse dei «partigiani disarmati»: «Se non portiamo cibo, come ci difenderanno?»
Le «staffette di Odessa» per portare cibo ai combattenti
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Il bellimbusto che dietro alla trincea riordina i sacchi di patate sa che la guerra dipenderà anche da lui. Nascosti in mezzo ai viveri ci sono le casse con le munizioni da portare al fronte sfidando il fuoco incrociato. E sa che oggi comincia un coprifuoco di due giorni, temendo i raid di Putin per il 9 maggio, che fino a un anno fa era un giorno di festa, ricordando la vittoria sui nazisti, ma domani potrebbe celebrato dall’esercito russo con una pioggia di fuoco sull’Ucraina. Le “staffette di Odessa” adoperano la tecnologia per mappare i bisogni dei civili rimasti nei villaggi e delle formazioni armate composte da civili arruolati nelle milizie di difesa territoriale. Se l’esercito conta su linee di approvvigionamento rodate, i neoarruolati hanno bisogno di continuo supporto dalle retrovie.

«Se non gli portiamo da mangiare non potranno difenderci. E se non portiamo il cibo alla gente che non può lasciare i villaggi dove si combatte, moriranno di fame e di guerra e non ci saranno più ucraini da proteggere». Sono diffidenti i partigiani disarmati di Odessa. Non hanno fucili né pistole. Le munizioni le trasportano e basta. Per non dare nell’occhio non possono indossare giubbetti antiproiettile. Ed è la condizione posta per chiunque sia ammesso a seguirli. Dopo giorni di contatti a distanza decidono di portarci con loro. L’appuntamento è nei pressi di un caseggiato in periferia. Sulla strada alcune sentinelle fingono di chiacchierare, ma tengono d’occhio il quartiere. «Dovete spegnere il Gps dal telefono», avvertono. Poi, passando per cortili e piazzali, arriviamo nel nascondiglio, protetto da una barriera di sacchi di sabbia.

Sanno di essere nel mirino. Anche oggi uno dei furgoni si prenderà la sua dose di buchi sulla fiancata. Li tappano con del nastro adesivo, «perché di notte fa ancora freddo ed è meglio viaggiare senza troppi spifferi», dirà un ragazzo che ha ancora addosso l’adrenalina di chi ne è uscito senza un graffio.


Quando la sirena ancora una volta risuona, restano impassibili. Dal 24 febbraio convivono come tutti trascorrendo notti insonni e giornate di piombo e lutti.

Il presidente Zelensky è dovuto intervenire per implorare la popolazione di nascondersi nei rifugi quando gli allarmi scattano. Ma a Odessa nessuno l’ascolta e nella Casa del Jazz come nei bar all’aperto sulle vie eleganti gli avventori scendono negli scantinati solo se qualche finestra va in frantumi. Ma i caccia e i missili a bassa quota spaventano davvero. Il timore più grande per le “staffette” è quello di venire scoperti nel loro viavai verso le trincee a un’ora di macchina da qui. Non è facile far arrivare al fronte alimenti e proiettili passando inosservati sotto ai droni russi. Tutti sanno che a Odessa gli spioni di Mosca sono dappertutto e non è facile distinguere un russofono da un russofilo.

Finora i filtri hanno funzionato e il covo non è stato bersagliato.

Finalmente ci fanno entrare all’interno. Uno stanzone è adibito a quartier generale. Un capellone scorre sullo schermo del computer le comunicazioni che arrivano dal distretto. Chi chiede cibo e chi cartucce per i fucili da caccia. Un altro risponde dai telefoni ai messaggi Sms dal fronte. Hanno escogitato un loro lessico cifrato. Parlano sempre di “kaptowka”, ma solo a pochi è consentito sapere cosa intendono davvero. «

Non riusciamo ad accontentare tutti e adesso scarseggia anche la benzina. Siamo tutti volontari e i soldi sono quasi finiti

», racconta quello che sembra il capo delle operazioni mentre accarezza un micio nascosto dentro al giubbotto. Da una porta di ferro, con le maniglie simili a quelle per le paratie stagne sulle navi, sbuca una ragazza che continua a pettinarsi. È lì dentro, in un bunker protetto come fosse un vecchio caveau, che l’organizzazione fa funzionare le cose. Ci sono vie di fuga e condotti meccanici per il ricambio d’aria, i letti dove far riposare chi rientra dalle prime linee e coperte calde per chi una casa non ce l’ha più o non vuol più stare da solo.

Ogni spazio è regolato secondo la destinazione: per dormire lontano dai rumori o per restare svegli in attesa che i raid siano finiti. Poi altre porte stagne dietro a cui stivare cibo, vestiti, giocattoli, e munizionamento. «Il 70% del nostro impegno è a sostegno dei combattenti», spiega lo spilungone.

Gli chiediamo se le autorità sanno delle loro missioni dietro le linee. «Ci muoviamo per conto nostro, ma nessuno ci ostacola», risponde sibillino. Se qualcuno vuol parlare con il capo non può farlo direttamente, ma contattare un altro membro, che poi riferirà a un altro il quale infine arriverà al vertice. E il vertice è Yulia. Tiene le fila dell’organizzazione e si assicura non ci siano spifferi di troppo. Le scariche di mitra e i frammenti delle bombe che stanno trasformando i furgoncini in scolapasta a motore, spiegano meglio di ogni altra considerazione perché non si sentano mai troppo al sicuro. Dicono di volere la pace, e che farebbero volentieri a meno delle armi «se solo i russi smettessero di aggredirci». Il resto, lasciano intendere, è politica: «Noi ci occupiamo di “kaptowka”».

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