domenica 29 gennaio 2017
Non c’è ancora chi possa sostituire Rohani. E il Paese, orfano di Rafsanjani, «si cerca»
Il presidente Hassan Rohani

Il presidente Hassan Rohani

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Lontana da ogni mare, da ogni fiume, sulla strada del Caucaso, Teheran sorprende il viaggiatore ogni qual volta metterà piede in questa metropoli, così lontana dall’Oriente, così affiatata d’Occidente, ma sempre e solo così abbracciata alla sua hovviyat, entità culturale. E con un forte vatan parasti uno straordinario attaccamento alla patria e alla sua forte identità. Certo, una Repubblica islamica, con i suoi rigidi codici, da cui non si tergiversa, e il velo è obbligatorio anche per le donne straniere, e non propriamente in linea sui diritti umani, ma a democrazia parlamentare e con un forte impegno elettorale, quando l’iraniano è chiamato alle urne. Come accadrà a breve scadenza, il prossimo mese di maggio, con 40 milioni di elettori che decideranno il futuro del presidente uscente Hassan Rohani.

Lui che va a lavorare in metropolitana per non inquinare, mentre i pasdaran, la galassia di religiosi, mullah e apparati conservatori, lo giudicano un pericoloso Gorbaciov da fermare, «altrimenti l’Iran farà la fine dell’ex Unione Sovietica». All’indomani della morte, per infarto, l’8 gennaio scorso, dell’ayatollah Hashemi Rafsanjani, 82 anni, la situazione sì è complicata. Era stato uno dei padri fondatori dell’Iran nato dalla rivoluzione che porta il nome dell’ayatollah Khomeini nel 1979, ma anche un leader considerato un faro per i cosiddetti «riformisti », per la sua ostinata idea di riqualificare i rapporti con l’Occidente. Uomo pragmatico, nel 2009 aveva compreso la rabbia del «Movimento verde» insorto contro l’allora presidente Mahmoud Ahmadinejad accusato di frodi elettorali, ma questo gli costò anche l’allontanamento dal massimo esponente del clero sciita, l’ayatollah Ali Hoseyni Khamenei, guida suprema dell’Iran, quindi ago della bilancia. La scomparsa di Rafsanjani ha creato un vuoto politico, non solo perché la sua figura era fondamentale per le elezioni di maggio, ma soprattutto perché lui era consapevole che la sopravvivenza dell’Iran, tradizionale e moderno, per non rischiare un tracollo traumatico del regime, passasse attraverso il cambiamento.

Ricucendo e migliorando le relazioni internazionali, soprattutto dopo la firma sul nucleare con gli Stati Uniti, e rilanciando l’economia afflitta da anni di embargo. La domanda ora è: c’è qualcuno che lo può sostituire? Teheran, megalopoli da 13 milioni di abitanti, e altri quattro milioni che ogni giorno si aggiungono per lavoro, è in mutevole trasformazione: nuovi quartieri sorgono come satelliti, soprattutto sulla collina, verso nord, un tempo esclusiva della nobiltà e delle residenze diplomatiche, attorno a lussuosi centri commerciali. Una decina quelli che già s’impennano al cielo della Persia. Più di trecento quelli in fase di realizzazione e anche questi si coniugheranno a polo aggregativo di nuove aree commerciali e residenziali, dove l’eleganza e i benestanti si siedono ai tavoli di una varietà di ristoranti alla moda, e alquanto poco convenienti alle tasche di un iraniano medio, quale un impiegato di banca con un salario di 400 dollari al mese. Ma i business ora sono altri. E poi le boutique che espongono i più prestigiosi nomi della moda italiana e internazionale.

È la nuova e potente rivoluzione che sta cambiando il volto, ma soprattutto le abitudini, se non di tutto l’Iran, certamente quello della capitale. In un centro commerciale come l’“Iranian” ci si può ubriacare di una moltitudine di piccoli bazar, posti a fisarmonica uno accanto all’altro, e avere solo l’imbarazzo della scelta di fronte agli ultimi modelli, pure di lusso estremo, della moderna tecnologia telefonica. Che fanno la gioia e sono l’energia delle nuove generazioni. La parte predominante della popolazione con un’età media di 25 anni, e che sono quasi i due terzi dei circa ottanta milioni di abitanti. Una passeggiata a piedi, immergendosi tra la gente che non fatica a regalare sorrisi e ospitalità, girando tuttotondo alla grande piazza Vali e Asr, riesce a fare luce sul presente di questo Paese, più attento a ciò che offre il moderno piuttosto che alla ridondanza degli slogan bellicosi.

Seppure resta viva la retorica anti-Usa come quel gigantesco murales appeso a un centro commerciale, che tiene vivo l’episodio dei dieci marinai americani, un anno fa fatti prigionieri per un giorno, tenuti in ginocchio sulle loro motovedette, capo chino e mani ben in vista sulla testa, dopo la cattura da parte dei Guardiani della rivoluzione, per avere sconfinato nelle acque del Golfo Persico. In nemmeno dieci anni sono state costruite cinque linee della ghatare zirzamini metropolitana. Una vera boccata d’ossigeno che ha alleggerito, seppure senza avere risolto il grave e mefitico avvelenamento da inquinamento atmosferico, provocato dal pesante flusso automobilistico che giornalmente si calcola in una decina di milioni di vetusti automezzi in movimento continuo.

La cittadella universitaria con i suoi ottantamila studenti è solo una porzione dell’Iran che nel 2016 ha laureato un milione e 200mila studenti universitari, di cui il 70 per cento erano donne, ed è un altro di quei luoghi dove ascoltare il cuore e la pancia di questa metropoli «da sempre considerata una vivacità più vicina al mondo riformista, soprattutto per la presenza di una buona borghesia islamica istruita, rispetto al resto del Paese dove è più solido l’Iran conservatore», ci dice il giovane Alireza, studente di medicina, mentre ci spiega che «quando si arriva all’università, non ci sono tasse da pagare, e neppure occorre sostenere spese per l’alloggio nel pensionato o per i pasti alla mensa statale ».

L’università statale è gratuita. Lo studente si deve solo impegnare in due cose. Prestare la sua opera volontaria, e di formazione, nelle infrastrutture pubbliche, e ricordarsi che al terzo esame fallito, perderà ogni privilegio e tornerà a casa. L’Iran oggi non fa più paura. L’Iran è considerato un interlocutore necessario per risolvere il «dossier Siria». Teheran è coinvolta direttamente con personale militare inviato a difendere Damasco, e con un prezzo pagato di più d’un migliaio di morti in divisa. Dopo l’accordo sul nucleare con Obama e la cancellazione dell’embargo – spiega una fonte occidentale – e ora con l’insediamento del presidente americano Donald Trump – al netto degli attriti sul bando agli ingressi negli Usa, decisi venerdì, e la reazione di reciproca chiusura agli americani da parte del regime, che ha definito «ingiuriosa » la scelta –, «sarebbe un grave errore tornare alla stagione delle incomprensioni e delle ostilità. Certo esiste anche un contenzioso regionale con l’Arabia Saudita: lo storico dissidio tra sciiti e sunniti, che si esercita su teatri terzi, come nel disastro dello Yemen.

Ma non spetta a noi occidentali dirimere quella diatriba storica». Sono molte le domande che si affacciano sull’Iran che va a riprendersi i suoi spazi in ambito internazionale, e un diplomatico straniero, pur ammettendo che «alcune linee della politica di questo Paese restano rigide e inconciliabili, tipo la posizione su Israele», sottolinea che «sarebbe un errore perdere anche questo treno», e ci tiene a ricordare un episodio della moderna diplomazia: «È il 1971. L’America di Nixon comincia a dialogare con la Cina comunista. Il segretario di Stato Usa Henry Kissinger a colloquio con Chou En-Lai, al leader cinese chiede un parere sull’importanza e gli effetti della Rivoluzione francese del 1789. Chou En-Lai risponde così: “È ancora troppo presto per dirlo”».

Qui a Teheran, se a un uomo tra i trenta e i quarant’anni si domanderà dove si trova «il covo dello spionaggio », l’ex ambasciata americana, quella assaltata dagli studenti nel 1979 e che dette origine alla lunga crisi diplomatica Usa-Iran degli ostaggi statunitensi, trattenuti fino al gennaio 1981, e oggi riconvertita in «Museo giardino della menzogna e dell’arroganza», oppure in che via si trova il «Museo della shohada », dei martiri della guerra Iran-Iraq, è molto probabile che la risposta sarà uno sguardo smarrito e di perplessità. È infatti questa la grande incognita sul futuro degli ayatollah. Perché dopo la generazione dei cinquantenni, non si sa che linguaggio usare per tenere l’impatto con le nuove generazioni.

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