mercoledì 11 dicembre 2019
Le elezioni politiche di domani saranno un «referendum» sulla proposta di uscita dall'Ue del premier. Il leader conservatore è in vantaggio nei sondaggi, ma il rivale laburista Corbyn lo incalza
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Dopo due anni e mezzo, il Regno Unito, domani, torna alle urne per rinnovare il Parlamento e decidere chi, tra l’attuale premier conservatore Boris Johnson o il laburista Jeremy Corbyn, traghetterà il Paese verso scelte decisive. L’esito della contesa non interessa solo la nazione, protagonista di una delle tornate elettorali più controverse della storia, ma l’intera Europa che, dall’altra parte della Manica, aspetta di capire quale sarà il futuro della tormentata Brexit romance. La possibilità che l’ac cordo di divorzio negoziato a ottobre tra Londra e Bruxelles possa diventare operativo a gennaio è legata a doppio filo a una piena vittoria del super favorito BoJo. In caso contrario, la partita potrebbe essere (quasi) tutta da rifare.

Le milionarie macchine della propaganda di Tory e Labour sono impegnate a diffondere gli ultimi proclami ma soprattutto a gestire gli immancabili colpi di scena. Johnson combatte per mantenere al 43% il suo vantaggio su Corbyn fermo al 33%. Ma inciampa nella provocazione di un giornalista che, durante un comizio, gli chiede spiegazioni in merito alla foto di un bambino malato abbandonato per terra in un ospedale di Leeds. La reazione del premier, che ha strappato di mano il cellulare su cui il reporter esibiva l’immagine mettendoselo in tasca, è stata bollata come «disumana ». «Istintiva e naturale», hanno sminuito dal partito cercando di riportare al centro del dibattito il loro mantra: BoJo è l’unico che può realizzare Brexit portando «stabilità» nel Paese. Fattore che piace alla City: da giorni gli analisti attribuiscono alla prospettiva di una maggioranza Tory la risalita della sterlina sul dollaro.

Imbarazzo anche in casa Labour. A provocarlo, ieri, è stato è stato il ministro ombra alla Salute, John Ashworth, che in una telefonata a un amico, che l’ha registrata e resa pubblica in un blog, ha detto che il Labour «non ha alcuna possibilità di vincere », che il partito ha fatto di tutto per «bloccare Brexit» e che «gli elettori odiano Corbyn». L’episodio, che Ashworth ha provato a derubricare come «battute prive di convinzione», ha messo in chiaro il deficit di leadership di cui soffre Corbyn – travolto anche dalle accuse di antisemitismo –, costretto, certo, a ricordare che la sua investitura arriva dalla base del partito, ma che quelle di domani «non sono elezioni presidenziali».

Tra i laburisti si rincorre la voce che in caso di cocente sconfitta, la seconda in due tornate elettorali, Corbyn possa dimettersi lasciando a John McDonnell, cancelliere del governo ombra, il compito di traghettare il partito verso un congresso di primavera per eleggere un nuovo leader. Nonostante i sondaggi dicano che i Tory potrebbero conquistare una netta maggioranza (con 38 seggi di vantaggio sull’opposizione), senza aver neppur bisogno dell’appoggio del Brexit Party, l’esito del voto rimane incerto. A cambiare le carte in tavola potrebbe essere il voto tattico invocato dai Labour e dai Liberal Democratici in chiave anti-Brexit per mettere i bastoni tra le ruote ai Tory. Non si tratta, tuttavia, di prove generali di coalizione: Jo Swinson, leader dei LibDem, ha già fatto sapere che non voterà la fiducia né a Johnson né a Corbyn.

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