sabato 31 agosto 2019
India e Pakistan si sfidano, sotto gli occhi preoccupati della Cina. Una polveriera ad alto rischio. A settembre la questione arriverà all'assemblea delle Nazioni Unite
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Le notizie si inseguono concitate e a volte contraddittorie fin sopra i colossi di pietra e ghiaccio dell’Himalaya. A ridosso del confine cinese-tibetano, con aree già a ingresso limitato per ragioni strategiche, la percezione è falsata, ma più in basso, nel Punjab, i convogli militari che salgono verso Jammu e Srinagar e i controlli che si moltiplicano sulle strade e negli aeroporti indicano che l’azione unilaterale indiana che il 5 agosto ha in poche ore cancellato l’autonomia dello Stato di Jammu e Kashmir e segnato la sua divisione in due Territori federali (quello omonimo e il Ladakh), non è stato un evento di ordinaria amministrazione.

La decisione di abrogare gli articoli 370 e 305 della Costituzione infatti, non solo ha tratto da un confine non riconosciuto dal diritto internazionale come quello settentrionale con il Pakistan una frontiera ad alto rischio, ma ha spostato pure i limiti territoriali ufficiali dell’India a ridosso di altre aree contese con la Cina.

Nelle locande lungo vie scavate con la dinamite e tenute aperte con costi enormi nelle alte valli dell’Himachal Pradesh incoronate dai Settemila che per molti sono l’ultima frontiera del Tetto del Mondo, quella non ancora solcata dai trekking di massa, l’elettricità a volte precaria nella distribuzione alimenta i televisori sintonizzati quasi ovunque sulle notizie che arrivano dal vicino Kashmir.

Ne escono notizie di tensioni al confine, della chiusura dell’unico valico aperto con il Pakistan a Wagah – tra le città di Amritsar e Lahore a centinaia di chilometri dal Kashmir – di scaramucce con militanti, di migliaia di arresti (ci sono anche testimonianze di torture nei villaggi) per prevenire una insurrezione della popolazione musulmana maggioritaria che si ritrova improvvisamente con minori diritti e – forse in modo definitivo – privata della possibilità di decidere da sé il proprio futuro come peraltro da decenni chiesto dalle Nazioni Unite. Risultato sono stati terrorismo, militarizzazione e repressione e 40mila morti dalle prime rivolte negli anni Ottanta, successive a tre brevi ma sanguinose guerre dall’indipendenza dopo la separazione tra India e Pakistan il 15 agosto 1947.

Bloccate le linee telefoniche mobili e Internet, sotto sorveglianza e in molti casi in stato di fermo attivisti, accademici e politici locali, censurati i mass media, svuotato dei turisti, il Kashmir resta praticamente isolato, sospeso in attesa di sapere se le prossime settimane o mesi lo vedranno tornare campo di battaglia. Farooq Abdullah, ex capo del governo locale, è agli arresti domiciliari nella sua abitazione, il suo successore Omar Abdullah si trova nella residenza dell’ultimo maharaja, Hari Singh, che consegnò – lui indù – il Kashmir e la sua popolazione islamica all’India post-indipendenza. Anche Mehbooha Mufti , combattiva attivista e premier locale fino allo scorso anno sarebbe rinchiusa in una villa del parco termale di Chashme Shani.

Lunedì scorso, al 22° giorno di coprifuoco e controllo militare, mentre per il portavoce governativo indiano la situazione andava verso la normalizzazione nonostante la prolungata chiusura di mercati, scuole e uffici in città semideserte e pattugliate da decine di migliaia di militari, il primo ministro pachistano Imran Khan ha ancora una volta ricordato l’incubo che incombe su quello che per gli imperatori Moghul era il «paradiso in terra». Se «la questione porterà alla guerra, ricordate che entrambi i Paesi hanno armi nucleari – ha ricordato Khan –. Nessuno vincerebbe una guerra nucleare, ma la distruzione non si limiterebbe solo a questa regione, il mondo intero dovrebbe affrontarne le conseguenze». Un appello alla comunità internazionale e al dialogo mediato dall’Onu che a Delhi non è stato finora accolto.

Ieri lo stesso premier ha chiamato la popolazione pachistana a una mobilitazione nazionale tra le 12 e le 12.30 nella giornata della preghiera islamica, da ripetere ogni settimana fino all’apertura dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 17 settembre. Una iniziativa che il ministero degli Esteri indiano ha bollato come «intesa a proiettare una situazione allarmante lontana dalla realtà sul terreno». Nel gioco delle parti è difficile valutare il vero rischio di scontro.

«Ora tocca al Kashmir occupato dai pachistani, è arrivato il tempo di riprendercelo», indica con orgoglio Ambud, l’autista indù, senza perdere la sua affabilità nemmeno davanti all’obiezione che questo significherebbe probabilmente guerra aperta a poche decine di chilometri dalle valli idilliache dove è nato e dove conduce con perizia il suo automezzo su strade che sembrano dissolversi sotto il monsone. E la possibilità di una campagna militare per recuperare all’India il terzo del Kashmir in mano pachistana suscita al massimo cautela e poca opposizione. La fiducia in Modi sembra completa e il tempo gioca a suo favore ma se i bombardieri e i missili dovessero decollare come ritorsione a un attacco il tempo sarebbe proprio quello che mancherebbe a evitare la catastrofe.

A settembre le due parti porteranno all’Assemblea dell’Onu le proprie ragioni. Ancora di più da allora, la responsabilità sarà condivisa e una eventuale inazione del mondo sul Kashmir sarà ancora più colpevole.

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