giovedì 10 giugno 2021
Iniziato il disimpegno, mentre il Daesh rivendica l’eccidio di 10 sminatori nel nord. L'analista Giustozzi: «I taleban non potranno distruggere ciò che è stato costruito su educazione e giustizia»
Il tenente colonnello Gianfranco Paglia, Medaglia dÕoro al Valor Militare, ad Herat per presenziare la cerimonia che di ammaina bandiera che segna la fine della missione italiana in Afghanistan. Herat, 9 giugno 2021

Il tenente colonnello Gianfranco Paglia, Medaglia dÕoro al Valor Militare, ad Herat per presenziare la cerimonia che di ammaina bandiera che segna la fine della missione italiana in Afghanistan. Herat, 9 giugno 2021 - ANSA/CLAUDIO PERI

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Sono almeno dieci le persone che hanno perso la vita e 16 quelle rimaste ferite in un attacco condotto contro alcuni sminatori nel distretto di Baghlan-e-Marzaki, nella provincia settentrionale di Baghlan in Afghanistan. Lo ha reso noto il ministero degli Interni di Kabul. Le vittime, che lavoravano per la compagnia “Halo Trust”, sono state trasferite nell’ospedale di Pul-e-Khumuri. Tolo News aveva affermato che i taleban avevano sparato contro la sede della ditta di sminamento nella provincia settentrionale di Baghlan, ma James Cowan, capo della Halo Trust, ha precisato che «non sono stati i taleban, che anzi sono intervenuti a difenderci per disperdere gli assalitori». Un portavoce del ministero degli Interni aveva puntato il dito contro di loro ma alcune ore dopo il gruppo del sedicente Stato islamico ha rivendicato l’attacco. L’Ong Halo Trust conta 2.600 impiegati in Afghanistan e il programma di sminamento del Paese è completamente guidato da afghani. Secondo l’Ong Inso, nel 2020 sono stati 180 gli attacchi ai danni delle Ong in Afghanistan.

Non solo addestramento di uomini e interventi su infrastrutture locali, ma anche programmi di supporto alle istituzioni, educazione, formazione (anche femminile), azioni nel settore sanitario e uno sforzo per una complicatissima riforma della giustizia che, però, ancora non c’è: vent’anni di guerra sono davvero lunghi e in Afghanistan non sono bastati per costruire condizioni credibili e durevoli per la pace. Eppure l’Italia, che ritira ora le sue truppe, lascia dietro di sé più di una traccia della propria, prolungata, presenza nel martoriato Paese, tra contributi erogati indirettamente, attraverso una miriade di progetti condotti dall’Unione Europea, e programmi di sviluppo realizzati autonomamente.

«Osservando tutto quello che è stato compiuto in questi due decenni, ciò che alla fine rimarrà agli afghani è senza dubbio quanto realizzato nel settore dell’educazione e della formazione, comprese le attività di addestramento delle forze di polizia locali da parte dei Carabinieri». A sostenerlo è Antonio Giustozzi, ricercatore affiliato al King’s College di Londra e analista per il Royal United Services Institute, con un’esperienza sul campo nella Missione di assistenza Onu nei primi anni del conflitto, fra il 2003 e il 2004. Proprio in quel periodo, l’Italia aveva assunto un ruolo di primissimo piano nel progetto per il «Sostegno alla ricostruzione del Sistema Giudiziario e Penitenziario Afghano» (ancora oggi si chiama così), un intervento pluriennale che aveva l’obiettivo di migliorare la qualità dei servizi forniti dal sistema della giustizia, in particolare nelle province di Herat e Bamiyan. «L’eredità principale di vent’anni di queste attività è stata quella di avere permesso un minimo di riordino del sistema, di compilazione dei codici e di analisi dei problemi» spiega Giustozzi.

«Ma il sistema giudiziario afghano resta oggi estremamente disfunzionale, quella riforma non c’è mai stata perché il sistema si è rivelato troppo corrotto ed esposto alle interferenze indebite dei politici. Poi se contestualmente non si è riusciti a riformare la polizia è ovvio che la magistratura non sia stata più in grado di cambiare. Insomma, non c’erano le basi politiche e sociali per mettere in atto le riforme di cui si parlava». Tra l’altro, considerando lo stato attuale del conflitto, nel caso si concluda con l’integrazione dei taleban al governo in posizione predominante, i cambiamenti maggiori che il gruppo islamista sarà interessato a operare saranno «proprio in ambito giudiziario: per i taleban una priorità», sottolinea il ricercatore. Anche in questo ambito di intervento, dunque, quello che l’Italia potrebbe lasciare in eredità è «il contributo intellettuale della formazione, della messa a disposizione di codici tradotti, di nuove edizioni testi giuridici per una nuova generazione di studenti di diritto».

Quanto è stato realizzato in ambito infrastrutturale, come arterie stradali e ponti, essendo la guerra ancora in corso, «potrebbe invece essere soggetto a distruzione, se già questo non è accaduto. Non mi riferisco solo a azioni belliche e attentati terroristici, ma anche a un progressivo danneggiamento indiretto, come sta già succedendo per molte strade: nel mezzo di una guerra la manutenzione non si fa per mancanza di risorse o per difficoltà di accedere a certe porzioni del territorio. Insomma, quel tipo di contributo che anche l’Italia ha ampiamente dato in questi venti anni è più probabile che vada perduto».

Dunque, per niente fisica e visibile ad occhio nudo, ma incredibilmente necessaria per costruire un Paese nuovo, a rimanere sul campo, dopo la partenza delle truppe, sarà la conoscenza trasmessa alle giovani generazioni afghane, che certo hanno di fronte a loro sfide grandissime. «Se pure i taleban – conclude Giustozzi – tornassero al potere, quello che è stato insegnato resta nelle menti e nella memoria di chi ha appreso, e prima o poi avrà un qualche impatto. In un Paese in guerra l’aiuto migliore è sempre quello fornito sostenendo l’educazione. I suoi risultati sono i più difficili da distruggere».

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