mercoledì 3 agosto 2011
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Sono due delle personalità politiche più note e influenti in Israele e fra i palestinesi. Per anni hanno negoziato durante gli incontri del processo di pace. Ora, fermi gli incontri ufficiali, hanno discusso privatamente alla presenza di un selezionato numero di esperti regionali e internazionali lontano dai riflettori. E come sempre accade in queste circostanze, hanno parlato molto più apertamente e di quanto avrebbero mai fatto in una circostanza ufficiale. E ancor più chiari sono stati i rispettivi "sherpa", come vengono chiamati i componenti delle delegazioni per i colloqui di pace.Il tentativo OnuNell’incontro molto spazio è ovviamente stato dato al tentativo palestinese di far nascere lo Stato della Palestina tramite un pronunciamento delle Nazioni Unite il prossimo settembre. Una mossa che è innanzitutto la dimostrazione del fallimento della via dei negoziati bilaterali. I palestinesi, in pratica, cercano di forzare la mano chiedendo all’Onu di riconoscere la Palestina come Stato vero e proprio, sperando così di avere maggiori carte in mano da giocare nelle future trattative. Inoltre, lo Stato palestinese che nascerebbe (sia pure sulla carta) non potrebbe che partire dalle precedenti dichiarazioni Onu, le quali richiedono il completo ritiro di Israele dai territori occupati con la guerra del 1967, Gerusalemme Est compresa. Come ovvio Israele sta contrastando questa mossa, confidando nel veto statunitense; sa bene di poter contare su poche simpatie nell’Assemblea generale; e sa anche – pur non ammettendolo – quanto l’occupazione dei Territori palestinesi strida con il diritto internazionale.Ma durante l’incontro sono emerse altre considerazioni: il tentativo di percorrere questa via riflette la frustrazione palestinese e la necessità per il presidente palestinesi Mahmoud Abbas di ottenere dei risultati per non indebolirsi troppo nei confronti di Hamas. Viene però fatto notare come questa mossa rischi di ritorcersi contro gli stessi palestinesi. Finirà infatti con il radicalizzare nuovamente le posizioni del governo Netanyahu – l’esecutivo recentemente più sbilanciato a destra – proprio ora che il primo ministro stava moderando le sue posizioni avvicinandosi a quelle sponsorizzate dal partito centrista Kadima, fanno notare diplomatici israeliani.Soprattutto ciò porterebbe Israele ad alzare il prezzo nei negoziati per rendere concreto un eventuale riconoscimento Onu: «Scordatevi a quel punto – è stata il duro commento – la possibilità di collegare Cisgiordania e Striscia di Gaza». Stesso discorso per quanto riguarda la gestione delle risorse idriche – di cui Israele fa un uso smodato – la riduzione dei check point, il blocco della costruzione di nuovi insediamenti... Con durezza, un rappresentante israeliano confida: «Abbiamo già dimostrato che sappiamo essere estremisti come e più di loro».Una duplice impotenzaL’impressione dall’esterno è stata quella di un dialogo frenato da una duplice impotenza: da un lato una dirigenza palestinese debole e divisa, che risente della sfiducia popolare, umiliata dalle intransigenze israeliane e dai propri fallimenti. Dall’altro, Israele stretto fra la consapevolezza che lo Stato palestinese prima o poi debba nascere e che buona parte dei territori occupati dovranno essere restituiti, ma nello stesso tempo frenato dal populismo del suo governo, dalla totale mancanza di fiducia verso l’Altro. Mal consigliato per di più da chi sostiene che la primavera araba stia sviando l’attenzione dal fallimento del processo di pace, e che si possa ancora rinviare un accordo. Un’idea definita controproducente da molti degli analisti e dei diplomatici israeliani presenti, eppure allettante per una classe politica incerta. Tutti dicono abbastanza apertamente che entrambi i popoli sono stanchi di guerra, paura e violenza e che vi sono forze in entrambi i campi che profittano dei fallimenti per propugnare agende politiche estremiste. I rappresentanti palestinesi sanno che la carta della violenza non li porta da nessuna parte, quelli israeliani che l’occupazione dei Territori e il populismo alla Lieberman minano Israele all’interno e lo isolano all’esterno, eppure manca la lucidità e la volontà di rilanciare il processo di pace.Negoziati e negoziatoriUn’altra divisione molto netta è su come organizzare i negoziati. Gli israeliani insistono per mantenere le trattative a livello bilaterale, con enfasi sul lavoro di tavoli di lavoro tecnici su temi specifici, sostenendo che in passato molti di questi gruppi ristretti sono andati vicino alla chiusura di buoni accordi.I palestinesi vogliono invece un accordo quadro su tutte le questioni – comprese quelle su Gerusalemme Est e sul diritto del ritorno dei profughi (temi tabù per Israele) – possibilmente in un ambito multilaterale. Hanno inoltre la consapevolezza che i negoziatori israeliani nelle discussioni specialistiche sono molto meglio preparati e informati di quelli palestinesi: «Nei tavoli tecnici non potremo mai imporci», dice uno di questi ultimi. Infine, i vertici delle delegazioni palestinesi nei colloqui di pace sono composte da troppi anni sempre dalle stesse persone. «È tempo di cambiare – mi dice uno di loro – c’è bisogno di nuove idee, nuove voci e di capire che rifiutare il pochissimo che Israele ci offre fa il gioco della destra israeliana che non vuole dare alcunché». Nessuno sembra avere dubbi sul fatto che dallo Stato ebraico non verranno che concessioni minime: qualcuno reagisce con rabbia, sentendosi umiliato, altri sottolineano come il pochissimo sia meglio del nulla, pur sapendo quanto sia politicamente impraticabile.Dall’altra parte, un esperto di sicurezza sottolinea come l’unica "bomba" che rischia di sconvolgere Israele sia quella demografica: «Sappiamo perfettamente che la crescita demografica palestinese è ingestibile e porrà dei problemi spaventosi tanto alle loro autorità quanto a noi. Rinviare le decisioni sul nostro ritiro e sulla nascita del loro Stato non fa che aggravarne gli effetti».In buona sostanza, la consapevolezza di dover rilanciare il negoziato di pace e di dover raggiungere degli accordi sembra comune. Ma simile appare anche l’impotenza nel vincere l’inerzia della sfiducia, del preconcetto, del calcolo politico a breve termine. Eppure, ognuno sa bene come non vi siano alternative a un accordo prima o poi. Ridendo uno di loro conclude: «Inutile sperare che Dio con un miracolo raddoppi lo spazio a nostra disposizione. Abbiamo questo fazzoletto di terra e dobbiamo farlo bastare per entrambi i popoli».
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