lunedì 21 gennaio 2013
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Sono l’unica forza elettorale in grado di fare da contrappeso a quella dei coloni. Parliamo degli «arabi d’Israele» oppure, come essi si autodefiniscono, «gli arabi del 1948», in riferimento alla popolazione palestinese rimasta nei propri villaggi dopo la creazione dello Stato ebraico. Rappresentano il 20,6 per cento della popolazione, ossia un milione 650mila su otto milioni di abitanti. Concentrati in particolare nella Galilea e nel Neghev, sono principalmente musulmani e drusi, ma con una consistente minoranza cristiana di diverse denominazioni (greco-ortodossi, latini, melchiti, armeni, anglicani per un totale di 135mila fedeli). Una forza numerica che fa gola ai partiti di sinistra che rischiano la disfatta. In verità, negli ultimi decenni la percentuale di voto fra gli arabi israeliani è andata calando progressivamente, dal 70 per cento degli anni Novanta al 53 per cento delle ultime politiche, nel 2009. Nella Knesset uscente siedono 15 deputati arabi su 120 parlamentari: dieci in partiti prevalentemente arabi (Balad, Lista Unita degli arabi-Ta’al, Hadash e partito democratico arabo) e altri cinque in altri partiti. Martedì scorso, il quotidiano Haaretz ha pubblicato un insolito e appassionato editoriale in arabo (con la traduzione in ebraico) per incoraggiare la minoranza araba a partecipare in massa allo scrutinio. «Gli appelli al boicottaggio del voto sono preoccupanti», notava Haaretz, con un riferimento alla linea politica del Movimento islamico, che promuove la disobbedienza civile. Il giornale sollecita il pubblico arabo a vincere i sentimenti di «demoralizzazione» diffusisi dopo quattro anni di governo della destra, e a partecipare in massa al voto «per il bene di quanti credono nella democrazia in Israele, ebrei ed arabi». Disinteresse o sfiducia? Certamente, la minoranza araba fatica ancora a vedere pienamente riconosciuti i propri diritti di cittadinanza. Lo illustra il caso di Salim Joubran, unico giudice arabo (e cristiano) della Corte suprema israeliana che si è rifiutato, alcuni mesi fa, di cantare lo Hatikvah, l’inno nazionale israeliano, che recita: «l’anima ebraica anela con gli occhi rivolti a Sion». Una questione che non troverà soluzione al di fuori di un riconoscimento – per ora lontano – del carattere ormai bi-nazionale dello Stato d’Israele.
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