martedì 19 marzo 2013
La nuova e fragile democrazia sempre in lotta con al-Qaeda. Quella notte il primo raid americano, il 9 aprile Baghdad era già caduta ma il peggio doveva iniziare Il progetto di fare del Paese il «gioiello del nuovo Medio Oriente» fallì in uno sfiancante conflitto al terrorismo e per le divisioni etnico religiose: 115mila le vittime civili di un decennio di violenze. (Luca Geronico)
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​Era una notte limpida a Baghdad, tanto che 10 anni fa qualcuno – passate da alcuni minuti le 24 senza lampi in cielo – ipotizzò un rinvio tattico del primo raid aereo per sfruttare l’effetto sorpresa. Era la guerra più annunciata del nuovo secolo, con una impressionante campagna dei media occidentali, a sostenere la “dottrina Bush”: la necessità di una guerra preventiva contro gli Stati canaglia di cui l’Iraq di Saddam Hussein divenne il simbolo da abbattere ad ogni costo. Anche quello della legalità internazionale.La risoluzione 1441 delle Nazioni Unite, nel novembre 2002, aveva dato l’ultima possibilità agli ispettori Onu di verificare la presenza delle armi di distruzione di massa che il segretario di Stato Usa di allora, Colin Powell, aveva teatralmente dichiarato parlando al Palazzo di Vetro, di avere già trovato. Ma Bush e la coalizione dei volonterosi non aspettò il resoconto degli ispettori e decise che era il momento di forzare la mano per abbattere il regime criminale di Saddam Hussein. Un azzardo giustificato dall’obiettivo di «esportare la democrazia» e di trasformare Baghdad nel «gioiello del Medio Oriente». Un modello, nelle intenzioni di George Bush, poi da far seguire.Il primo raid, quella notte di dieci anni fa, tardò solo di qualche ora: la sera del 20 marzo in mano alla coalizione erano già caduti i principali pozzi petroliferi del Sud iracheno e il porto di Umm Qasr. I 260mila uomini della coalizione sbaragliarono in pochi giorni i 400mila soldati iracheni, tanto che della campagna d’Iraq – oltre ai bombardamenti davvero chirurgici nella capitale – si ricordano le tempeste di sabbia, le sole capaci di rallentare l’avanzata. Il 9 aprile Baghdad era già presa mentre iniziava la caccia a Saddam Hussein e ai suoi gerarchi. La speranza innestata dal cambio della guardia a Baghdad, dopo 24 anni di repressione poliziesca e criminale, riempì quella primavera. La libertà era una novità esaltante per gli iracheni abituati a non parlare mai in pubblico di politica e a vedere ovunque infiltrati del Mukhabarat, i terribili servizi segreti, capaci di far sparire nel nulla parenti ed amici. Sembrava la svolta e il 1° maggio George Bush, atterrato sulla portaerei Lincoln di rientro dalle operazioni di sostegno nel Golfo, ostentò un davvero prematuro «mission accomplished».L’illusione di una veloce ricostruzione, però, durò ben poco: il graduale passaggio di poteri dai proconsoli americani alle autorità irachene avviò una transizione lenta e sanguinosa. L’attentato al Canal hotel di Baghdad – sede del comando dell’Onu – nell’agosto di 10 anni fa segnò, almeno simbolicamente, l’avanzata di al-Qaeda. Dalla dittatura alla guerriglia per bande, con gli americani a fare da garanti alle istituzioni disegnate nella nuova Costituzione approvata nel 2005. L’uccisione, il 7 giugno 2006, di Abu Musab al-Zarqawi in raid mirato delle forze statunitensi e l’impiccagione di Saddam Hussein il 30 gennaio del 2006 dimostrano plasticamente la convivenza nei primi anni di dopo guerra di vecchio e nuovo terrore. La strage di Nassiryah il 13 novembre del 2003 (19 le vittime italiane) resta il prezzo più alto pagato dall’Italia in questo sforzo di ricostruzione di un Paese.Una difficile e costosissima transizione: 115mila le vittime civile. Il cambio di strategia e il ritiro del contingente Usa nell’agosto del 2010 segnano la prova di maturità nell’uscita dal dopo Saddam. Ma la sfida è ancora aperta: le elezioni del 2010 hanno riposto un Paese spaccato tra sciiti e sunniti capace solo dopo nove mesi di darsi un governo. Il nuovo Iraq è in potenza uno dei leader dell’Opec, ma resta pure una base di al-Qaeda esposta all’influenza del conflitto in Siria. La maggioranza sciita, al governo con al-Maliki, appoggia Assad mentre i sunniti sono vicini al fronte guidato da Arabia Saudita e Qatar. L’attacco il 4 marzo scorso in Iraq del convoglio che riportava in Siria dei soldati siriani curati in un ospedale iracheno è stata la prima avvisaglia di una possibile internazionalizzazione. La voglia di rinascita è ben presente e quest’anno Baghdad è stata proclamata capitale della cultura araba. Ma solo giovedì scorso un commando terroristico ha potuto prendere d’assalto il ministero della Giustizia: 30 morti e 50 feriti. La guerra, strisciante, non è ancora finita.
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