martedì 18 ottobre 2011
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​«Con l’uccisione di padre Fausto, il Pime ancora una volta paga, a prezzo del sangue, la testimonianza dei suoi missionari nei diversi ambiti in cui è impegnato nelle Filippine. Oggi è la volta del lavoro in difesa dei tribali e dei loro diritti. In passato è stato il dialogo con l’islam (costato la vita a padre Salvatore Carzedda nel 1992), in precedenza il lavoro nelle comunità cristiane di base, colpito duramente con l’eliminazione di padre Tullio Favali nel 1985». Padre Luciano Benedetti, classe 1944, originario di Faenza, da pochi mesi rientrato in Italia, ha dedicato quasi totalmente il suo impegno missionario alle Filippine, anch’egli nelle file del Pime. Nel 1998 è stato rapito per 68 giorni da un «commando» di fondamentalisti musulmani.Conosceva bene padre Fausto?Sì, eravamo amici. In seminario avevamo dormito nella stessa camera. Poi nel 1978 la partenza insieme, alla volta delle Filippine, dove le nostre strade si sono divise. Padre Fausto, infatti, nel 1982 si è recato a Kidapawan, insieme ad altri del Pime, per aprire una nuova missione nell’Arakan Valley: una zona abitata da tribali, con alcune comunità cristiane molto isolate e, dal punto di vista naturalistico, incontaminata. Quello per i tribali e la loro «causa» è sempre stato l’impegno prioritario di padre Fausto?Sì. Quando era a Columbio nel 1984 per imparare la lingua, ha passato i primi sei mesi in un villaggio tribale e lì hanno sparato due proiettili contro casa sua. Perché? Quando cominci a interessarti dei bisogni dei tribali e ti prendi a cuore la loro situazione, crei problemi, diventi un troublemaker («rompiscatole»). Il Pime è arrivato nelle Filippine nel 1968. Fin dai primi anni si è rivelata una missione tutt’altro che facile. Negli ultimi anni, poi, s’è aggiunto l’estremismo islamico...Già nel 1977 tre missionari del Pime, attivi a Manila, sono stati espulsi a motivo del loro impegno sociale. Negli anni successivi molti confratelli hanno vissuto l’esperienza delle minacce di morte o di rapimento. Io stesso sono stato rapito e nel 2007 lo stesso è accaduto a padre Giancarlo Bossi. Padre Fausto, nel 2003 era già stato oggetto di un tentativo di rapimento (fortunatamente senza conseguenze). Forse proprio in quell’occasione è nato il progetto di eliminarlo. Due anni fa una lettera di minaccia lo aveva costretto a far ritorno per alcuni mesi in Italia per precauzione. Poi era ripartito, la situazione sembrava normalizzata: l’ho incontrato a un ritiro nell’agosto di quest’anno e in quell’occasione non ha mostrato preoccupazioni particolari.

Padre Benedetti, scorrendo la lista degli uccisi o rapiti nelle Filippine qualcuno potrebbe pensare ai missionari come a sprovveduti che mettono a repentaglio la vita in zone che sanno essere pericolose oppure come «eroi» che vanno a caccia del martirio. È così?No, nessuno vuol fare l’eroe. Ci siamo posti ripetutamente il problema della sicurezza e adottiamo una serie di precauzioni. Certo, quando si finisce nel mirino queste potrebbero non bastare. In ogni caso, tutte le volte che qualcuno di noi capisce che si sta raggiungendo il «livello di guardia» cambiamo aria, ci spostiamo. Per tutelare la gente del posto, oltre che la missione nel suo complesso. Il problema è che il nostro lavoro ci costringe spesso ad operare da soli, in luoghi isolati.

Perché il Pime è rimasto e rimarrà, nonostante tutto, nelle Filippine?Perché ce lo chiede la missione. Testimoniare il Vangelo comporta affrontare dei rischi. Abbiamo fatto una promessa anche alla nostra gente e dobbiamo essere fedeli al popolo che ci è stato affidato. Dove sarà sepolto padre Fausto?Non lo so. So dove lui vorrebbe essere tumulato: in una località suggestiva, a circa 6-700 metri d’altezza, nella «sua» Arakan Valley. L’aveva confidato ai suoi amici.

 

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