mercoledì 20 giugno 2012
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Con 21 anni di ritardo, Aung San Suu Kyi ha potuto ritirare personalmente il premio Nobel per la Pace assegnatole nel 1991. Allora fu il figlio Alexander a partecipare alla cerimonia di premiazione, leggendo al posto della madre il discorso di ringraziamento. Ad Aung San Suu Kyi, infatti, non era proibito lasciare il Myanmar, ma la giunta militare aveva chiarito che se lo avesse fatto, non avrebbe più potuto rientrarvi. E così, la Lady – rientrata in Birmania nel 1989 per accudire la madre morente – ha preferito restare nella nazione.Ventiquattro anni di assenza sono tanti. Come si è preparata ad incontrare l’Europa dopo aver vissuto per lungo tempo in Inghilterra?Durante il viaggio in aereo ero eccitatissima. Osservavo dal finestrino passare sotto di me, ad appena sette-otto chilometri, terre e Paesi dalle culture, lingue, religioni diverse. Erano Paesi senza frontiere, dall’aereo non le puoi vedere. Mi dicevo che se io ora sono libera di viaggiare da un Paese all’altro, altre persone non lo sono per diversi motivi. Dobbiamo lottare anche per loro. Ora sono in Europa, un continente che conosco bene perché ci sono vissuta per tanti anni. Ma stavolta è un’esperienza nuova. Ho rivisto alcuni amici che non vedevo da tempo, sto scoprendo come sono cambiate le città, gli stili di vita. È elettrizzante.Cosa ha provato quando ha stretto in mano il premio?Emozione, naturalmente, ma anche un senso di liberazione e di felicità. Liberazione perché il mio arrivo ad Oslo, dopo 24 anni di restrizioni di movimento, è un segno che la situazione in Birmania sta cambiando. Felicità perché, oltre a conoscere direttamente persone che si sono sempre battute attivamente per la democratizzazione della Birmania, potrò finalmente portare il Premio al mio popolo che ha sofferto e continua a soffrire per i 50 anni di dittatura militare.Lei è ancora scettica sulla reale democratizzazione in atto in Myanmar, o Birmania come preferisce chiamarla. Eppure dal 2010 ad oggi ci sono stati chiari segni di buona volontà da parte del governo di Thein Sein?Thein Sein è una persona credibile e aperta alle riforme, ma all’interno del Tatmadaw (le Forze armate del Myanmar, ndr) esistono ancora elementi contrari alla democratizzazione. È per questo che ribadisco sempre: non bisogna abbassare la guardia.La parte più delicata della democratizzazione birmana è quella che interessa le minoranze etniche. Nessuno, nemmeno suo padre, è mai riuscito a porre fine ai conflitti periferici della nazione. Come pensa di riuscirci lei?Il segreto sta nell’ascoltare le richieste di queste componenti etniche che fanno parte integrante dello Stato birmano. I generali della giunta sino ad oggi hanno pensato solo a sfruttare le risorse economiche delle minoranze per il loro tornaconto personale. Occorre cambiare prospettiva e permettere che siano le rappresentanze etniche stesse a gestire le loro risorse per il bene di tutta la nazione.Eppure in alcuni Stati della Birmania si cominciano a riscontrare i primi scontri a sfondo etnico e religioso, come quelli in atto nell’Arakan tra buddisti e musulmani. Forse avevano ragione coloro che avvisavano del pericolo di una democratizzazione troppo repentina?Gli scontri nell’Arakan sono dovuti alla politica delle passate giunte militari che hanno negato alle popolazioni locali una giusta autodeterminazione. Tali conflitti c’erano anche prima, non sono nati dopo l’avvio del processo democratico. Musulmani e buddisti hanno vissuto pacificamente assieme per secoli in quella regione: è stata la politica della giunta militare a rompere l’equilibrio naturale che si era raggiunto. Ora dobbiamo ristabilirlo ma, come dimostrano i recenti avvenimenti, non è facile.Lei è entrata nel Parlamento pur essendo contraria alla Costituzione del Paese. Non è un controsenso?Continuiamo a non accettare la Costituzione e ci battiamo affinché possa essere cambiata in modo democratico. Non riteniamo giusto ad esempio, che il 25 per cento dei seggi debba essere assegnato ai militari perché questo blocca ogni emendamento che non sia accettato da loro.-Le economie mondiali, Usa e Europa in testa, cercheranno in tutti i modi di recuperare il terreno perduto negli investimenti in Birmania a causa del boicottaggio. Non pensa che una rincorsa al profitto possa portare allo sfruttamento incontrollato dei lavoratori e a rendere il Myanmar un campo di battaglia tra Usa, Cina e India?Lo sfruttamento dei lavoratori esiste già oggi. I sindacati in Birmania sono stati liberalizzati solo da poco tempo e, ora, in alcune fabbriche, gli operai si stanno organizzando per chiedere maggiori diritti. Certamente l’aumento degli investimenti nel Paese potrà portare allo sviluppo di una sorta di capitalismo selvaggio, ed è per questo che dobbiamo controllare attentamente ogni richiesta. È anche vero, inoltre, che Cina, India e Stati Uniti potrebbero scontrarsi in Birmania come è successo altrove. Solo un governo veramente democratico e rappresentativo potrà evitare che questo accada. È anche per tale ragione che sono venuta in Europa. Per chiedere aiuto a voi affinché il nostro Paese non venga immolato sull’altare del profitto.-Lei si è sempre dichiarata favorevole all’embargo economico verso la Birmania dei generali. Ora sta cambiando opinione, chiedendo ai turisti di visitare il Paese e alle compagnie internazionali di investire nella nazione. Come mai se, come lei stessa ha appena detto, esiste il pericolo di una “controriforma” che potrebbe riportare la Birmania alla dittatura militare?È vero, esiste sempre questo pericolo, ma occorre anche dare una chance al processo di riforma e a chi sostiene questo processo. Penso che l’apertura del Paese all’esterno, con l’arrivo di stranieri e di investitori dai Stati democratici, possa cementare le fondamenta dello Stato democratico che stiamo costruendo.
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