martedì 22 gennaio 2013
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La nuova Israele avrà il volto di Naftali Bennett. Certo, non sarà lui a vincere le elezioni, perché il suo partito, Habayit Hayehudi (letteralmente: «La casa degli ebrei») al massimo raggranellerà 13 seggi, il che peraltro per lui significa quadruplicare i consensi. No, Bennett non sarà il vincitore perché a vincere sarà ancora il Likud di Benjamin “Bibi” Netanyahu, puntellato da quella destra religiosa e ultranazionalista di cui Bennett, quarantenne imprenditore dell’hi-tech nato a Haifa ma vissuto a lungo negli Stati Uniti è un perfetto campione. Ma Bennett, a dispetto della puzza sotto il naso che il perbenismo laburista del presidente Peres e lo scetticismo di Tzipi Livni (delfino di Olmert ma destinata restare all’opposizione dopo la scissione da Kadima) ostentano quando odono il suo nome, è un pezzo ragguardevole dello Stato ebraico di domani.Il suo programma è semplice quanto efficace: «Farò tutto quello che è in mio potere per garantire che i palestinesi non avranno mai uno Stato: basta con i negoziati, basta con le illusioni». Della Cisgiordania vorrebbe fare una sorta di “Area C”, dove vivono e comandano solo i coloni. «I palestinesi, se vogliono – dice – se ne possono andare altrove, altrimenti restino pure qui, ma come cittadini di serie B, con meno diritti e meno tutele. Questa è la Terra promessa, la Terra di Canaan, la nostra terra». Grande successo di pubblico. Non solo fra gli ultrà ortodossi, non solo fra i coloni, ma anche in quella tiepida middle class israeliana che ha smesso da tempo di far affidamento su una improbabile road map, che ha messo il Rabin degli accordi di Oslo e lo Sharon che imponeva il ritiro da Gaza nella bacheca dei ricordi e ora si culla – vergognandosene, ma in gran segreto – in questa nuova favola che Bennett (ma non soltanto lui) va declinando in tutte le sue forme, tanto da aver costretto un po’ tutti i partiti a nascondere sotto il tappeto l’abusata espressione “Due Stati, due popoli”.Già perché nell’Israele che oggi va alle urne la questione palestinese sembra essere il grande rimosso. Al suo posto giganteggia il fantasma dell’Iran – il capolavoro propagandistico del sessantatreenne Netanyahu (3 miliardi di dollari costerebbe la «messa in sicurezza» del Paese) che gli garantisce una facile vittoria in accoppiata con Israel Beytenu, il partitello del ministro degli Esteri Avigdor Lieberman –, seguito dal fantasma della depressione economica. Il che, con un tasso di crescita del 3,3% e un confronto impietoso con le economie occidentali, è un bel dire. Ma Israele è un crogiuolo di nostalgia para-biblica e di modernità, di ricchezza e di angoscia per l’avvenire, di ipertecnologizzazione e di inverosimili arcaismi. Una cosa è certa, l’epoca d’oro dei <+corsivo>kibbutznikim<+tondo>, i duri come Moshe Dayan, come Ben Gurion, come Golda Meir, sembra definitivamente tramontata e con essa quel sottaciuto codice che poneva il pantheon degli eroi israeliani del Mapai e del Mapam (le due sinistre dell’epoca della fondazione) come guida morale della nazione. Oggi si bada all’impetuoso numero di start-up (impressionante: le imprese ad alta tecnologia israeliane quotate al Nasdaq a New York sono seconde solo a quelle americane e gran parte dei brevetti hi-tech, bio-tech e d’avanguardia esce dagli operosi opifici tecnici di Tel Aviv) e parallelamente alla crescente disoccupazione – il 7%, almeno, il che ha indotto Netanyahu a una spericolata manovra economica e a nuove elezioni – e all’insorgere di una disoccupazione che inquieta i giovani e i loro genitori.Che fare dunque, si domandano smarriti i milioni di israeliani che hanno appena digerito la breve guerra di Gaza di novembre e guardano con malcelata apprensione ai confini settentrionali del Paese, a quella Siria, a quel Libano perennemente instabili, e più in là a quell’Iran che nemmeno li nomina a dovere, chiamandoli ufficialmente «l’entità sionista»? Risposta: rivoteranno il Likud, perché solo un uomo forte, pensano, può risolvere questioni spinose. Ma a sorreggere il prevedibile secondo mandato consecutivo di Netanyahu provvederà l’altrettanto prevedibile affermazione di quella sorta di sionismo tribalista che Naftali Bennett (qualcuno fra i più irriducibili fra i coloni l’ha apparentato addirittura a Sabbatai Zevi, il cabalista di Smirne che nel 1648 si proclamò Messia degli ebrei) ha incarnato finora alla perfezione ammantandolo di efficienza e modernità. Chiamiamola, se volete, l’estrema destra hi-tech, che non ha bisogno di vestirsi con il nero degli hassidim e che sta rapidamente imparando a non rispettare il sabbath.

Sarà questa destra di nuovo conio e di vecchie radici a sorreggere il gabinetto Netanyahu. Ed è inevitabile domandarci già da ora che fine farà il dialogo con Abu Mazen, a cosa porterà la corsa ininterrotta a nuovi insediamenti, chi e con quale voce tratterà con Hamas e con Fatah dopo il riconoscimento all’Onu dello status di Paese osservatore per la Palestina, quale sarà la reazione del mondo arabo di fronte alla sterzata nazionalistica che si profila. Domande che la nervosa anche se scontata campagna elettorale per il rinnovo della Knesset finora ha del tutto eluse.

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