venerdì 20 marzo 2020
Polemiche e scontro nel Paese per esecuzione degli uomini che abusarono su un bus di una ragazza nel dicembre del 2012 nella capitale Delhi. La giovane morì dopo le violenze
Le manifestazioni per l'esecuzione dei quattro stupratori

Le manifestazioni per l'esecuzione dei quattro stupratori - Ansa

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Si è conclusa alle 5.30 del mattino con quattro impiccagioni una vicenda che come mai prima in India ha sollevato sdegno, animosità e messo a confronto legalità, giustizialismo e necessità di tutela per la donne. L’esecuzione nel carcere di Tihar, a Delhi, degli uomini condannati a morte per aver abusato nella notte del 16 dicembre 2012 su un autobus pubblico della capitale di una 23enne fisioterapista tirocinante provocandole traumi tali da portarla alla morte due settimane dopo, è stata salutata da molti con manifestazioni di giubilo e da altri con sollievo. «Siamo soddisfatti che mia figlia abbia avuto finalmente giustizia», ha commentato la madre della vittima dopo l’esecuzione seguita fuori dal carcere da un gruppo di persone che ha scandito il conto alla rovescia.

Dei cinque adulti colpevoli dell’aggressione giustificata da uno di essi come punizione perché «una ragazza per bene non va in giro alle 9 di sera», quattro sono arrivati sino all’epilogo odierno. Un altro è invece morto in cella nel marzo 2013. Un sesto, infine, 17enne al tempo del delitto, è libero dopo avere scontato tre anni in un carcere minorile.

La sorte della 23enne Jyoti Singh, soprannominata da subito “Nirbhaya” (l’«Impavida») per il coraggio con cui, nonostante le gravissime condizioni di salute aveva per due volte chiesto di testimoniare contro il branco dal suo letto d’ospedale – prima a Delhi e poi a Singapore – è diventata simbolo dell’immensità degli abusi commessi nel Paese contro le donne e dei limiti culturali al perseguimento dei responsabili.

«La giustizia ha prevalso, è della massima importanza assicurare dignità e sicurezza alle donne», ha dichiarato ieri il premier nazionalista indù Narendra Modi, ma altri, come l’attivista Kavita Krishnan che fu tra i leader delle proteste di piazza che scossero l’India dopo la morte di Nirbhaya, hanno accusato il governo di negligenza per non avere fermato violenze e omertà.

Anche la Chiesa indiana è sempre stata contraria alla pena capitale, pur auspicando leggi adeguate. «Rispettiamo la sentenza dei giudici, ma allo stesso tempo, come cristiani, crediamo nella vita e nella riconciliazione», ha ricordato ieri suor Anastasia Gill, avvocato della Corte Suprema e membro della Commissione per le minoranza di Delhi. «L’esecuzione – ha confermato all’agenzia UcaNews – ha inviato un chiaro messaggio alla società che la legge esiste, tuttavia governo e società civile devono trovare soluzioni che cambino l’atteggiamento verso le donne. Fino a quando questo non succederà, proseguiranno stupri e atrocità».

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