sabato 20 aprile 2013
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La costa dell’Est in stato d’assedio, le linee ferroviarie fra Massachusetts e New York interrotte, il coprifuoco a Boston, la caccia all’uomo che non si ferma, il presunto attentatore – armato e pericoloso – che ancora non si trova. All’indomani dell’attentato dell’11 settembre 2001 alle Due Torri a New York e alle sedi governative a Washington la preoccupazione principale dell’amministrazione Bush fu quella di cauterizzare l’America dal pericolo di un’infiltrazione terroristica come quella che aveva consentito a Mohamed Atta e ai suoi complici di attuare il loro rovinoso attacco al cuore degli States. Da questa emergenza nacquero dapprima il Dipartimento della Sicurezza Interna e successivamente il Patrioct Act, approvato dal Congresso fra mille critiche, una legge federale che estendeva il potere dei corpi di polizia e di spionaggio statunitensi, come Cia, Fbi e Nsa (l’agenzia che infaticabilmente intercetta email, messaggi, conversazioni telefoniche e ogni forma di colloquio che riguardi la sicurezza nazionale), limitando contestualmente – e questo era il prezzo da pagare da parte della società – la sfera della privacy dei cittadini americani. Il nemico all’epoca si chiamava al-Qaeda, e la sua fisionomia, la sua provenienza, le sue origine erano assolutamente chiare e individuabili. Già in quei mesi tuttavia il timore malcelato del segretario alla Difesa Donald Rumsfeld come del direttore della Cia George Tenet era focalizzato su quella che venne chiamata profeticamente la White al-Qaeda, ovvero l’insorgenza terroristica interna, perpetrata da cittadini statunitensi, islamici ma non necessariamente arabi, seguaci del più efferato radicalismo politico-religioso ma di etnia caucasica. Perfettamente confondibile e amalgamabile con il vasto corpo sociale americano, ovvero con quella immensa – se pur oggi impoverita e sofferente – middle class, dalla quale difficilmente ci si aspetterebbe un gesto di sovversione. Tamerlan e Dzhokhar Tsanaev, fratelli di origine cecena residenti negli Stati Uniti (uno dei quali ucciso nel conflitto a fuoco con la polizia) e sospetti responsabili insieme ad alcuni complici dell’attentato alla maratona di Boston, rappresentano l’identikit esemplare di questa "al-Qaeda bianca": sono giovani qualunque, un volto anonimo nella massa, capaci di sfruttare appieno le opportunità che la permeabilità delle grandi democrazie di intonazione popperiana sa offrire (a cominciare dall’uso sfrontatamente plateale dei social network, dove esaltano senza nascondersi i loro sogni nichilisti), mescolandole al fanatismo che nella corrente salafita trova una saldatura perfetta con l’al-Qaeda delle origini e il jihadismo odierno, quello che infiamma il Maghreb e l’Africa subsahariana e avvolge nel cupo presagio di una stagione di sangue un arco che va dal Marocco all’Iraq, dalla Mauritania alla Somalia. Della loro origine transcaucasica, di quella madre residente a Cambridge nel Massachusetts, arrestata recentemente per furto, della borsa di studio che l’università aveva offerto al più giovane dei due (divenuto cittadino americano – il fato sa essere sardonico – l’11 settembre 2012) si parlerà e si discuterà a lungo, così come – per quanto sia esercizio puramente accademico – delle motivazioni che li hanno spinti a coltivare un odio viscerale verso il Paese di adozione, di quella "partita doppia" che li vuole buoni cittadini e insieme devoti di un jihadismo che non perdona, militanti islamisti e studenti universitari, ragazzi per bene (o quasi) e terroristi sanguinari allo stesso tempo, capaci di dichiarare su Facebook che le cose importanti sono l’islam e il denaro: un magnifico ossimoro che sa di schizofrenia sociale. L’America che si rifiuta di chiudere le porte all’immigrazione ma che parimenti non mette al bando la vendita di armi dovrà fare i conti anche con questo. Con l’eventualità – non del tutto remota, come si vede – che l’insidia maggiore non sia quella del nemico esterno (feticcio ormai dimenticato della Guerra fredda) ma di quello che vive e si nasconde fra le sue stesse pieghe. Un prezzo che ogni democrazia per rimanere tale deve essere disposta a pagare.
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