martedì 28 aprile 2015
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Kathmandu è una città distrutta ma non vinta, nonostante le difficoltà. Se il centro è devastato, altre zone alternano una parvenza di normalità. Dipende molto dalla conformazione dell’abitato: in alcune parti della periferia le abitazioni più moderne o gli edifici distanziati uno dall’altro sono rimasti in piedi o con poche lesioni. Nel centro, dove le case sono addossate una all’altra, il crollo di una ha causato un gigantesco effetto domino, tirando giù tutto. In altre parti della città i quartieri periferici risultano irraggiungibili, quasi come il centro che è praticamente distrutto, e anche le squadre di soccorso si fanno strada a fatica. I curiosi, quei pochi curiosi, vengono tenuti a debita distanza. In effetti, ognuno ha già da fare abbastanza per se stesso e la propria famiglia. La maggior parte delle persone che ho incontrato sono per strada, vivono letteralmente per strada nonostante la pioggia, sotto ripari di fortuna. Roshan, studente universitario, 23 anni, ha impiegato ore per un percorso che normalmente compie in 20 minuti di autobus, per venire a trovare i suoi amici europei dei progetti di cooperazione. Di trasporto pubblico non se ne parla, e ognuno si arrangia attraverso mezzi di fortuna per le strade già precarie in tempi normali, rese ancora più insidiose da una distruzione la cui profondità è ancora incalcolabile. Un po’ ovunque scarseggiano generi alimentari e si riesce a fare un pasto completo ogni due giorni. Il tam-tam parla degli aiuti in arrivo da Cina, India, anche dall’Italia, dagli Usa, da tanti Paesi, ma la distribuzione è davvero critica e ancora tutt’altro che capillare. «Mio padre – ha raccontato Roshan – sabato era in centro e ha visto i templi crollare, i palazzi sbriciolarsi, le case andare giù una dopo l’altra». In altre zone le persone si stanno organizzando tra di loro secondo le coordinate di una solidarietà spontanea: chi ha qualcosa di intatto o del cibo che si è salvato dalla distruzione lo porta e lo condivide con gli altri. Tutti si danno da fare. Ognuno ha compreso che il peggio non è il terremoto, ma i giorni seguenti, e che soltanto insieme si può riuscire a sopravvivere, ad organizzarsi, a darsi forza. Domenica sera ha piovuto, lunedì sera ha piovuto. È una caratteristica di questo periodo dell’anno: durante il giorno la temperatura è piuttosto calda, la sera il cielo si carica di nuvole nere e l’acqua tormenta i ripari di fortuna. Mancano tende resistenti. In tanta distruzione resistono qua e là luci che accendono una piccola speranza. È intatto l’orfanotrofio di Bagmati, uno dei distretti nord di Kathmandu, dove si svolge il progetto europeo che mi vede coinvolta; il muro di cinta è crollato da una parte ma la struttura è intatta anche se per la paura bambini ed operatori vivono, lavorano, dormono in strada. Le scosse sono diminuite. Per tutti si prepara un’altra lunga notte. Di pioggia. Ma anche di tanta solidarietà.
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