sabato 8 febbraio 2020
Mancano i pezzi per le fabbriche. Slittano i dati sul commercio, mentre Trump rassicura Xi: «Vincerete» L’economia mondiale si è troppo sbilanciata sul Dragone.
Il virus dell'epidemia cinese infetta anche la globalizzazione

Ansa

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L’Agenzia delle Dogane che ogni mese comunica i dati sul commercio della Cina con il resto del mondo ieri avrebbe dovuto pubblicare l’aggiornamento di gennaio. Invece ha pubblicato una nota in cui spiega che i numeri sul primo mese dell’anno saranno resi noti a marzo, insieme a quelli di febbraio, perché tra feste per il Capodanno cinese ed effetti del coronavirus i numeri delle importazioni e delle esportazioni del mese scorso sono troppo «distorti» per essere considerati affidabili. Il rinvio di quelli che sarebbero stati i primi dati economici ufficiali dall’inizio di questa crisi non aiuta a capire quanto davvero l’epidemia stia danneggiando l’economia cinese. In questa situazione di incertezza i pochi elementi sicuri sono le chiusure delle fabbriche e dei negozi e i timori che le aziende sono disposti ad ammettere pubblicamente.

Fca è stato il primo costruttore di auto europeo a dire, senza molti altri dettagli, che il blocco della produzione di un fornitore cinese può interrompere l’attività di una sua fabbrica europea nel giro di due o quattro settimane. Lo studio di S&P sull’impatto del coronavirus sul settore dell’auto pubblicato giovedì mostra però che ci sono aziende che sembrano molto più a rischio del gruppo italo-americano. A partire da Volkswagen, gruppo tedesco i cui affari dipendono ormai più da ciò che succede in estremo oriente che dagli eventi europei: arriva dalla Cina il 40% della produzione e va in Cina il 40% delle auto vendute.

Quello della casa tedesca è un caso limite, ma è tutta l’economia mondiale che nell’ultimo decennio ha spostato il suo baricentro sulla Cina e ora si trova pericolosamente sbilanciata. Secondo i calcoli della società di analisi economica Ihs Markit, la quota cinese nella produzione manifatturiera mondiale è salita dal 6,7 al 30,5% tra il 2002 e il 2019.

La Cina è anche il primo soggetto del commercio internazionale, rappresentando da sola l’11,4% degli scambi. Nessun Paese nella storia ha avuto tanto peso sull’economia del resto del mondo, questo anche perché la fase di globalizzazione intensa che stiamo vivendo è un fenomeno relativamente recente, iniziato attorno al 1990. Per i risk manager che si occupano di proteggere aziende dagli imprevisti sono settimane durissime.

«Ci si affida al Geoaudit, una procedura che identifica i potenziali rischi legati all’esposizione internazionale: in primo luogo, si studiano le dinamiche dei rapporti con l’estero, e la maniera in cui queste possono impattare, sulla catena di fornitura – spiega Mark William Lowe di Anra, l’associazione nazionale dei gestori del rischio –. Il compito del risk manager, a questo punto, è quello di monitorare il rischio di cambiamento, per cercare di anticipare il momento in cui può comparire un problema, ed elaborare non solo un piano B in caso di blocco, ma anche un piano C che garantisca il regolare transito delle merci». Gli Stati non hanno veri e propri risk manager. Sta ai governi fare in modo che l’economia nazionale sia equilibrata, cioè che la crescita del Pil, l’attività delle aziende e i posti di lavoro non dipendano eccessivamente da un singolo fattore, come può essere l’export di automobili (tipo rischio tedesco) oppure la voglia di shopping dei cittadini (rischio americano).

La crisi del coronavirus sta riportando in primo piano lo “sbilanciamento cinese” di molti Paesi. Come l’Australia, che da un decennio è il grande fornitore di materie prime per la Cina: se a causa di uno choc il Pil cinese dovesse crescere di 5 punti in meno del previsto, calcolava l’estate la Reserve Bank of Australia, il Pil australiano potrebbe ridursi di 2,5 punti (mandando il Paese in recessione). In questo senso, il coronavirus può funzionare da sveglia per i governi, chiamati a ragionare su un “riequilibrio” delle proprie economie per costruire una crescita più solida, meno dipendente da fattori esterni. Non nella forma disordinata e aggressiva dell’America First di Donald Trump – che ha avuto una lunga telefonata con Xi Jinping e ha assicurato che il presidente cinese «avrà successo» – ma attraverso una regolazione più intelligente e meno mercatista dei rapporti commerciali con il resto del mondo.

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