mercoledì 1 giugno 2016
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«Tutto è collegato”. Se si ignora tale dato di fatto – più volte sottolineato da papa Francesco nella Laudato si’ –, si finisce per non comprendere davvero la crisi in atto a Chiloé, come in altre parti del nostro maltrattato pianeta». Parla al presente monsignor Luis Infanti de la Mora, vescovo e vicario apostolico dell’Aysén e da sempre in prima linea nella difesa della casa comune. L’ok del governo al sussidio mensile di circa 200 dollari ai pescatori fino a settembre, ha messo fine alla parte più dura del conflitto. «Si tratta, però, di una situazione-tampone. Mitiga gli effetti ma non risolve le cause », spiega il pastore. E queste ultime – non ha timore di aggiungere – non sono esclusivamente naturali. Che cosa intende? La “marea rossa” esiste da vecchia data in questo tratto costiero del sud del Cile: le tipiche alghe locali, microscopiche, si ammalano e si riproducono in modo incontrollato, sprigionando una sostanza scarlatta, tossica per la fauna ittica e anche per l’uomo. Mai prima d’ora si era prodotta una catastrofe di simili proporzioni. Studi indipendenti e l’esperienza dei pescatori ci esortano ad “allargare lo sguardo” per comprendere la radice del problema. Questa risiede nel modello economico di rapina messo in atto negli ultimi trent’anni nella regione. Dal 2010, poi, la strategia di privatizzazione selvaggia del mare per gli allevamenti intensivi di salmone s’è fatta più aggressiva. A beneficiarne sono quattro multinazionali, che hanno acquisito il monopolio del settore e esportano il 98 per cento del prodotto all’estero. Queste praticano uno sfruttamento eccessivo dei metricubi marini acquistati, per altro a cifre relativamente basse. Invece di collocare un massimo di 17 chili di salmoni per gabbia, ne stipano fino a 30 o addirittura 50. I pesci si ammalano, come pure il fondo marino. I manager, però, fanno finta di non accorgersene. L’imperativo è massimizzare il profitto. Gli effetti collaterali, però, non si fanno attendere. Si riferisce all’inquinamento ambientale? Non solo. I problemi ecologici non sono questioni a se stanti. Essi generano a loro volta sconquassi economici, sociali, culturali, ferendo l’essere umano. A Chiloé assistiamo a una crisi ambientale che è pure una crisi socio-economica e morale. Il rapido sviluppo dell’industria dei salmoni ha spazzato via la pesca artigianale, le tradizioni e le culture ad essa collegate. Gli ultimi 29 giugno, alle celebrazioni di San Pietro, considerato dai pescatori il patrono del mare, ci sono ormai pochissime barche. La maggior parte dei lavoratori ha preferito cercare impiego nei grandi stabilimenti. E ora che il boom si sgonfia – per sua diretta responsabilità –, lascia dietro di se un mare color sangue e una lunga scia di nuovi disoccupati. A pagare il costo più alto sono ovviamente i poveri, “usati” fin quando fanno comodo e poi “scartati”. Alla fine, però, la stessa industria risente del contraccolpo. Nel lungo periodo, dunque, lo sfruttamento non sostenibile delle risorse naturali, dunque, non conviene a nessuno. Che fare allora? L’unica strada è ripensare il modello di sviluppo. All’economia predatoria “mordi e fuggi” va sostituito un progetto di ampio respiro che tenga conto dei diritti dell’ambiente, degli animali, delle persone coinvolte. La Chiesa di Chiloé ha più volte espresso solidarietà con i lavoratori colpiti dalla crisi e ha esortato a trovare strategie economiche rispettose del mare. E, in generale, dell’ambiente. Altrimenti le catastrofi si ripeteranno. Ieri era Aysén, con la privatizzazione delle risorse idriche, oggi è Chiloé, domani a chi toccherà? 
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