venerdì 22 gennaio 2021
Gerusalemme capitale, lo spostamento dell'ambasciata, gli Accordi di Abramo: la nuova Amministrazione conferma le scelte della precedente. E si aprono opportunità per i palestinesi
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l'allora vice-presidente americano Joe Biden a Gerusalemme nel 2010

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l'allora vice-presidente americano Joe Biden a Gerusalemme nel 2010 - Ansa

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«Yes and yes». La domanda era: «Gli Stati Uniti continueranno a considerare Gerusalemme la capitale di Israele e manterranno lì l’ambasciata?». Martedì, durante l’audizione in Senato per la sua conferma, Antony Blinken, l’uomo scelto da Joe Biden come futuro capo della diplomazia americana, ha risposto senza mezzo secondo di esitazione: «Sì e sì». Non sarà questa l’unica decisione presa da Donald Trump che troverà posto nei registri della nuova Casa Banca. Gli Accordi di Abramo con Emirati, Bahrein, Marocco e Sudan sono un buon lascito da mettere a frutto. Il punto di equilibrio raggiunto nel Golfo è la risultante di un’equazione differenziale che lega sua funzione alla variabile Iran. L’obiettivo dei Paesi sunniti è contenere le derive di un regime (quello sciita degli ayatollah) fisiologicamente votato all’isolamento. Un interlocutore faticosissimo. E se ci sarà, come sembra, la riapertura di un canale di dialogo con Teheran – «A mio giudizio, l’accordo sul nucleare iraniano, con tutti i suoi limiti, stava riuscendo a bloccarli», ha sottolineato Blinken nella stessa audizione –, non potrà evidentemente non tenere conto del nuovo quadro regionale. Israele ha sempre avuto ben chiara la priorità. Per tutto il resto si troverà un accomodamento.

Il rapporto con il presidente democratico

Benjamin Netanyahu è sopravvissuto senza troppi problemi al mandato di Barack Obama: un uomo con cui i rapporti non sono mai stai facili, fino a raggiungere picchi imbarazzanti di malcelata ostilità. Per otto anni è stato proprio quel presidente democratico a spedirgli a Gerusalemme un tale Biden, allora suo vice. E non sono mancate tensioni e scortesie difficili da neutralizzare. Netanyahu dovrà (e saprà) reimpostare il rapporto. Sempre che tocchi a lui avere la responsabilità di governo, perché tra due mesi in Israele si vota. E il premier è in affanno. Per giunta orfano dell’amico Trump. Un anno fa, il 28 gennaio 2020, Bibi era al suo fianco, a Washington, per la presentazione di «Peace to Prosperity»: l’“Accordo del Secolo” per il Medio Oriente che faceva infuriare quasi tutti, a cominciare dai palestinesi. Ora che il “secolo” di Trump è tramontato, resta da trovare l’accordo. E serve un’onesta presa d’atto dell’esistente, perché non ci sono alternative. Settant’anni di «no» – impastati di rabbia, ideologia e aspettative poco realistiche – hanno finito per schiacciare la dirigenza palestinese dentro una gabbia di irrilevanza politica, togliendo voce e rappresentanza a un popolo che merita spazio e rispetto.

Le elezioni palestinesi

Il presidente dell’Anp Abu Mazen ha annusato l’aria e convocato le elezioni a partire da maggio. Le prime da 15 anni. Il progetto di “pax economica” avviato nel Golfo, accolto a Ramallah come un puro tradimento dei fratelli arabi, se consolidato e opportunamente indirizzato può invece farsi motore e ispirazione per una nuova leadership palestinese da invitare al tavolo dei negoziati. E pazienza se a metterlo insieme, quel tavolo, sarà stato l’odiato tycoon. Il presidente Joe Biden è uomo saggio. E ha gusti molto raffinati. Probabilmente anche in fatto di tovaglie.

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