venerdì 15 novembre 2013
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Non è emergenza, ma il massiccio flusso di profughi degli ultimi mesi ha messo sotto stress un sistema solitamente ben organizzato e strutturato. «Più di duecento persone a settimana chiedono asilo – spiega George Joseph, responsabile area immigrazione di Caritas Svezia. – In buona parte sono siriani ma ci sono anche eritrei, somali e persone di altri Paesi».Il numero dei rifugiati siriani ha subito un aumento all’indomani della decisione del governo di concedere a tutti i fuggitivi dalla Siria un permesso di soggiorno permanente. «È un’ottima decisione. Che permette a queste persone, spesso duramente provate dalle violenze subite e dal lungo viaggio, di iniziare una nuova vita. Possono fare piani per il futuro», commenta Joseph. Una decisione straordinaria (e attualmente unica in Europa) per far fronte al dramma di una guerra sempre più cruenta. E di cui non si vede la fine.Il sistema svedese è efficiente, efficace e molto generoso. A differenza di quanto avviene in Italia, dove i richiedenti asilo vengono spesso abbandonati a se stessi e costretti a trascorre le notti all’addiaccio, la Svezia prevede una rete di centri di accoglienza. «Le domande vengono valutate in tempi brevi, circa 60 giorni – spiega Lara Olivetti, consulente legale per varie ong europee e membro dell’Associazione studi giuridici per l’immigrazione (Asgi). – Una volta passata la procedura, il rifugiato e la sua famiglia hanno accesso alla fase di accoglienza e integrazione». Un periodo di due anni che prevede, oltre ai sussidi economici, corsi di formazione professionale e avviamento lavorativo, di lingua e scuola per i più giovani.All’interno di questo meccanismo la Caritas svolge un ruolo di supporto, ascolto e orientamento. E, attraverso le proprie reti, contribuisce a mantenere legami con i familiari rimasti nei campi profughi in Libano e Giordania. «Ci sono tanti cristiani in fuga dalla Siria, temono per la loro vita e sono venuti qui per salvarsi – conclude George Joseph. – Noi assistiamo tutti, musulmani compresi. Ora che le loro vite non sono più in pericolo, è tempo di curare le ferite e i traumi che hanno subito. E questo richiederà del tempo».
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