sabato 9 dicembre 2017
Altri gruppi armati colmano il vuoto lasciato dalle Farc, ormai sciolte. La Comunità di San José de Apartadó, sostenuta da Operazione Colomba, è stretta nella morsa
Lo scorcio del villaggio di San José de Apartado

Lo scorcio del villaggio di San José de Apartado

COMMENTA E CONDIVIDI

Il rosso delle lettere affiora, caparbio, dal velo di vernice bianca con cui è stato coperto. Basta trovare l’angolazione giusta per scorgere, con chiarezza, la “A”, la “G” e la “C”. Acronimo di Autodefensas gaitanistas de Colombia. È la loro firma. Quella dei “nuovi paramilitari”. «Siamo tornati per restare», avevano scritto quest’estate su tutti i muri di San José de Apartadó, nell’Urabá, cuore della regione bananiera di Antioquia. Gli abitanti hanno cancellato il messaggio. Ma la minaccia resta.

Uomini pesantemente armati hanno cominciato a circolare in gruppo sui viottoli sterrati del municipio e dei villaggi intorno. Ora che le Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia (Farc) si sono ritirate, dopo l’accordo di pace con il governo di un anno fa, sono ansiosi di far vedere chi comanda. Soprattutto ai “ribelli” di San Josecito de la Dignidad, dove da vent’anni resiste la Comunità di pace di San José de Apartadó. Anche grazie al sostegno internazionale e all’accompagnamento di Operazione Colomba.

Le sue “palomas” (colombe) – come vengono chiamate le operatrici italiane residenti nella Comunità – la proteggono con la loro discreta ma attenta presenza. Era il 23 marzo 1997 quando trecento famiglie, sostenute dall’arcidiocesi, dalla Commissione interecclesiale Giustizia e pace e dal Centro per l’educazione popolare dei gesuiti (Cinep), hanno detto no alla guerra che infuriava nella regione. Da una parte, c’erano i miliziani pseudo marxisti del quinto fronte delle Farc. Dall’altra, le Autodefensas unidas de Colombia (Auc), la federazione delle bande paramilitari di ultradestra, create da boss del narcotraffico e latifondisti in funzione anti-guerriglia.

Per tale ragione, hanno operato nella zona – le organizzazioni umanitarie non si stancano di ripeterlo – con l’aiuto della XVII Brigata dell’esercito e del suo comandante, il generale Rito Alejo del Río, poi condannato a 25 anni per l’esecuzione extragiudiziale di un sindacalista e denunciato per una serie di stragi. Tutti e tre mettevano gli agricoltori locali di fronte a un bivio: collaborare o andarsene. Le trecento famiglie della Comunità hanno scelto opporsi alla logica del conflitto. Senz’armi. Così, si sono dichiarate neutrali, non a parole, nei fatti. Rifiutando di vendere cibo ai combattenti – con o senza divisa – o passare informazioni. E, soprattutto, costruendo un sistema di vita solidale e non violento. Un cartello verde, all’entrata, lo sintetizza in poche regole. «Partecipare ai lavori comuni, non bere, non coltivare droghe, non portare armi…». Scandisce le parole con lentezza Germán Graciano Posso, uno degli otto delegati del consiglio della comunità, eletto dall’Assemblea dei residenti. Quest’ultima detiene il potere di governo, mentre il consiglio ha una funzione di gestione. «Oltre ai nostri campi, abbiamo una parte di terra comune che lavoriamo insieme. Il nostro cioccolato viene venduto nel circuito del commercio equo. Il giovedì è il giorno dedicato alla manutenzione dei servizi: strade, scuola, centro sociale», spiega Germán.

I risultati si vedono: le casette, mura di legno e tetto di lamiera, sono spartane ma curate, come gli alberi e gli animali. Un panorama molto diverso dalla vicina e decadente San José, dove paura e tensione sono palpabili. «Noi vogliamo e abbiamo sempre voluto solo vivere in modo umano», afferma Germán. Un sfida per una società assuefatta alla violenza. Per questo, la Comunità ha dovuto pagare un caro prezzo. Dei trecento nuclei familiari fondatori ne restano 35. Trecentoventicinque residenti sono stati massacrati: 35 casi sono imputati alle Farc, il resto – 290 –, secondo gli attivisti, a paramilitari e militari.

In media, oltre un omicidio per ogni mese di esistenza dell’esperienza, unica in Colombia. I nomi dei “caduti”, tra cui sei bambini, sono scritti nel mausoleo circolare al centro del Parco della Memoria. E nelle pietre bianche che conducono alle 23 tombe con i corpi finora recuperati. «A Bartolomé, dopo averlo ucciso, lo hanno appeso a un gancio da macellaio, perché la gente “imparasse”. Qualche giorno prima mi aveva detto: “Se mi fanno fuori, promettimi che continuerai tu”», racconta Brigida González. Un impegno che la combattiva superstite – ex sindacalista in una fabbrica bananiera, attivista per i diritti umani, artista autodidatta e madre di nove figli – ha mantenuto. «E continuerò a farlo. A meno che non mi assassinino, come i miei amici e 27 parenti, tra cui mia figlia Elicena, di 15 anni. Il pericolo ora è di nuovo alto». Per la Comunità, la pace con le Farc è stata una bella notizia. Ma qua la guerra non è finita. Anzi, paradossalmente, il disarmo degli ex miliziani ha creato un vuoto. Che gli eredi dei paramilitari sono ansiosi di colmare. Le Auc si sono smobilitate, formalmente, tra il 2003 e il 2006. Molti dei loro quadri intermedi sono rimasti, però, in attività dando vita a una galassia di narco-bande. Come le Autodefensas gaitanistas de Colombia. Forti dei vecchi appoggi, i nuovi paramilitari stanno avanzando in tutta la Colombia, soprattutto nei 242 municipi prima controllati dalla guerriglia. Il che spiega lo stillicidio nazionale di attivisti. Le cifre divergono: 137 vittime da gennaio secondo Indepaz, 80 per l’Acnur, 90 per Somos defensores, 54 in base ai dati del ministero della Difesa.

In ogni caso, tutti sono concordi nel registrare un aumento di almeno il 30 per cento. Una cifra scomoda per un Paese che cerca di uscire dal labirinto della violenza. Ai morti si sommano le minacce e le aggressioni. «E il reclutamento di bambini da parte dei gruppi armati continua », dice Coalico, organizzazione per l’infanzia sostenuta da Terre des Hommes Italia.

Nello Stato del Chocó, Amnesty International ha da poco denunciato stupri sistematici, violenze e lo sfollamento di 10mila persone da parte degli ex paramilitari. Lo stesso accade in Cauca, Nariño, Putumayo, Arauca, Antioquia. Cioè in quell’“altra Colombia”, dove lo Stato non è mai arrivato, se non con sporadiche repressioni. «Ad Apartadó sono loro la legge. Obbligano la gente a pagare il pizzo. I contadini di Arenas e Las Mandarinas sono costretti a seminare coca », sottolinea Germán. Parole confermate dall’ultimo rapporto del Difensore civico. «Tutta la terra dei villaggi di Nueva Antioquia, La Esperanza e Playa Larga, ormai, è nelle loro mani. Vengono e dicono alla gente: “O mi vendi tu, o compro alla tua vedova” », Già, la terra. L’asse storico intorno al quale ruotano i molti conflitti che, per un secolo, hanno insanguinato la Colombia. Nell’Urabá fa gola a tanti. Non solo ai narcos. La regione è ricca di risorse naturali, dal carbone all’acqua. Ventitrè mega progetti per sfruttarle sono già in marcia. Stretta nella morsa, la Comunità di pace continuare a fare ciò che ha sempre fatto: resistere. «Noi continueremo ad aiutarli», affermano le “palomas” di Operazione Colomba. «Fin quando il dolore si trasformerà in speranza – conclude Brigida –, sempre ci sarà comunità».

(3. Fine - Le precedenti puntate, il 24 novembre e il 3 dicembre 2017)

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI