martedì 10 febbraio 2015
​La volontaria originaria dell'Arizona è stata rapita nel 2013 in Siria. 
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"Sono solidale con il popolo siriano, rifiuto la brutalità e gli omicidi che le autorità siriane stanno commettendo contro i siriani, perché il silenzio significa esserne complici". Era il 2011 quando Kayla Mueller aderì con un video alla campagna su youtube Syrian sit-in in favore del popolo siriano, lasciando percepire quella determinazione che due anni dopo l'avrebbe portata in Turchia e Siria ad aiutare gli altri. Volontaria per l'ong Support to Life, 26 anni, originaria di Prescott in Arizona, Kayla fu rapita dai jihadisti in Siria nell'agosto 2013, mentre tentava di rientrare in Turchia dopo uno stop all'ospedale spagnolo di Medici senza frontiere di Aleppo, insieme a un gruppo di altri cooperanti, che sarebbero poi stati rilasciati. Il suo nome non era mai stato divulgato dalle autorità americane per non mettere a rischio la sua incolumità. È stato l'Is a diffonderlo il 6 febbraio annunciando la morte di Kayla sotto le bombe giordane. Morte confermata oggi dal presidente Barack Obama e dalla famiglia Mueller. Solo pochi giorni fa il capo della Casa Bianca aveva assicurato il massimo impegno per liberarla. Una foto della ragazza con alle spalle lo stendardo del Kiwanis Club di Prescott compare in un'intervista del 31 maggio 2013 del The Daily Courier, in cui racconta la sua esperienza nei campi profughi in Turchia. "Finchè avrò vita - diceva Kayla - non permetterò che questa sofferenza diventi qualcosa di normale, qualcosa che accettiamo e basta. È importante fermarsi e capire quanto siamo privilegiati. E quindi cominciare ad agire". Un altro articolo dello stesso giornale datato 2007 diceva di lei che era già attiva nella Coalizione Save Darfur. La sua famiglia ha reso noto nei giorni scorsi che, dopo la laurea nel 2009, andò come volontaria anche in India, Israele, territori palestinesi e che studiò in Francia per un anno per poter lavorare nei paesi francofoni dell'Africa. Per la sua liberazione, l'Is aveva chiesto oltre sei milioni di dollari, ma Washington ha sempre mantenuto ferma la politica di non pagare il riscatto degli ostaggi, avvertendo anche le famiglie e i parenti degli americani detenuti in Siria o altrove che, se cedessero alle richieste dei terroristi, potrebbero essere perseguiti penalmente.
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