giovedì 19 febbraio 2015
​L'impegno ora è testimoniare questo consenso agli sfollati. Dopo il freddo, l'urgenza è la sanità.
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Non è stata una raccolta fondi, ma vera condivisione». Ha appena letto le ultime tabelle sulle donazioni al progetto “Emergenza Kurdistan” il presidente della Focsiv Gianfranco Cattai. Sembrava un azzardo chiedere a un Paese in bilico tra recessione e deflazione un aiuto per essere a fianco dei profughi. La risposta – oltre 260mila euro raccolti in 4 mesi – è stata un successo che comporta «attese» e «responsabilità».Gianfranco Cattai, come amministrerete questo “tesoretto”?Ringrazio, prima di tutto, ciascuno di quelli che hanno contribuito attraverso le pagine di Avvenire, e ringrazio il giornale per la scommessa fatta insieme. Questo comporta per noi due impegni: testimoniare con i curdi e gli sfollati che dietro di noi ci sono più di mille persone che credono al progetto e tenere costantemente informati sugli sviluppi della situazione. Come intendiamo procedere? Noi siamo andati in Kurdistan non per essere una agenzia in più, ma un soggetto di riferimento, divenire credibili con la comunità locale: se c’è un bisogno che non è soddisfatto dai programmi istituzionali, possono contare su di noi. Un risultato già raggiunto e da perseguire, mentre siamo pure un riferimento per chi vuole essere più efficace: l’Unicef ci ha affidato fondi e materiali per raggiungere comunità da loro nemmeno censite; Acted, con la nostra intermediazione, ha finanziato 70 famiglie con 250 dollari ciascuna. L’emergenza, ora, sta diventando l’assistenza sanitaria. Ci stiamo attrezzando per la distribuzione di farmaci e abbiamo contattato le autorità locali: in questi giorni l’Auci, una delle nostre associazioni legata al Policlinico Gemelli, sta partendo per il Kurdistan per studiare un piano di intervento. Prosegue intanto il lavoro di animazione con i ragazzi: ora lo arricchiremo con una operazione di «dopo scuola», non potendo ovviamente garantire noi la scolarizzazione. Abbiamo infine avviato il progetto di borse lavoro.Più di 1.200 donazioni di privati cittadini: il 70% circa del totale raccolto. Come «amministrare» invece il capitale umano non meno importante della mobilitazione?Siamo stati a dir poco sorpresi, sbalorditi. Non è stata una operazione di raccolta fondi ma una risposta immediata di condivisione e che ha coinvolto anche Masci, Iscoc, Banca Etica, Mcl, Ac e ultimamente anche le Acli. Stiamo pensando e lo proporremo anche ad Avvenire, ulteriori modalità di restituzione e coinvolgimento. Qualcosa che va ben al di là del solo contributo economico.Una media di 140 euro per ogni donatore. Cosa ha rappresentato questo gesto per voi che fate cooperazione?Che se si riesce a comunicare il senso per cui si agisce molti italiani che hanno il senso della solidarietà e reciprocità potrebbero accompagnarci anche nella cooperazione internazionale classica. Abbiamo riflettuto a lungo sul titolo da dare alla campana: «Non lasciamoli soli» non indica un’azione, ma uno stile, una scelta di vicinanza. Troppo spesso noi comunichiamo quello che facciamo e non il senso di quello che facciamo: questo nel tempo straordinario di papa Francesco che denuncia invece la cultura dello scarto. Quali possibili nuovi interlocutori per fare rete?Abbiamo avviato un contatto con Cristina Castelli, psicologa dell’Università Cattolica di Milano, esperta di studi sulla resilienza, con l’obiettivo di garantire una formazione più robusta agli animatori. Inoltre due famiglie in Toscana si sono rese disponibili ad ospitare per un periodo determinato degli sfollati. Stiamo esplorando con la Farnesina, con risposte per ora negative, la possibilità di avere dei visti. Insisteremo.Potrebbe essere un «Piano Marshall dal basso»?È quello che stiamo cercando di mettere in piedi. Il coordinamento europeo delle Ong va in questa direzione: si deve arrivare a un piano strategico e iniziare a progettare, per quanto possibile, soluzioni definitive.
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