venerdì 10 giugno 2011
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Il «desiderio di un avvenire migliore» soffia forte negli ultimi mesi in Siria e in tutta l’area del Mediterraneo sollevando u­na domanda di riforme. Avvenimenti che dimostrano «l’ur­gente necessità di vere riforme nella vita politica, economica e sociale». Una evoluzione ancora in corso che, auspica Benedet­to XVI, si potrà compiere solo evitando «in­tolleranza, discriminazione» e a maggior ra­gione la «violenza». Una “Road map” per le riforme consegnata da Joseph Ratzinger alle autorità di Damasco tramite il nuovo ambasciatore siriano pres­so la Santa Sede, Hussan Edin Aala, che ieri presentava le sue credenziali; un appello a tener conto delle «aspirazioni della società civile», comprese quelle della comunità cri­stiana da sempre impegnata in campo so­ciale ed educativo oltre che nel dialogo interreligioso. Un cam­mino che necessariamente Damasco dovrà compiere tenendo conto pure delle «istanze internazionali». Per l’intera regione, conclude Ratzinger, serve una soluzione globale «frutto di un compromesso e non di scelte unilaterali imposte con la forza». Un accordo che la comunità internazionale fatica più che mai a raggiungere: nei prossimi giorni andrà in votazione al Consiglio di Sicurezza una bozza di risoluzione sulla Siria preparata dalla Gran Bretagna d’intesa con la Francia, e appoggiata da Germa­nia e Portogallo. Ieri pure Washington ha dato il suo sostegno al­la risoluzione che condanna le violazioni «sistematiche» dei di­ritti umani e chiede di porre fine alla repressione dei civili. Un pos­sibile nuovo giro di vite internazionale contro Damasco che ha subito incassato l’altolà di Russia e Cina. Mosca, ha fatto sapere un portavoce, è contraria a qualsiasi risoluzione perché la Siria «non rappresenta una minaccia per la pace e la sicurezza inter­nazionale ». Scettici su nuove condanne e san­zioni, ma più possibilisti, i delegati di Suda­frica e Libano. Le schermaglie diplomatiche al Palazzo di Ve­tro non possono sciogliere la crescente ten­sione a Damasco e in tutte le principali città siriane alla vigilia di un nuovo giorno di pro­testa: come da tre mesi a questa parte il tam tam dei social network chiama a raccolta gli oppositori per quello che sarà chiamato il “Venerdì delle tribù”. Il sito “The Syrian revo­lution”, uno dei simboli della rivolta, preannunciava ieri una nuo­va ondata di proteste promossa dalle tribù di Daraa, Suweida e Quneitra, e forse anche di Aleppo. L’ennesima sfida al regime che «deve sapere che tutti gli elementi della società gli sono contra­ri ». Intanto a Homs, presidiata dall’esercito, in alcuni quartieri manca l’energia elettrica e i carri armati pattugliano i viali cen­trali: la resistenza ha risposto abbassando le saracinesche in se­gno di protesta mentre, secondo i siti dell’opposizione, sono sem­pre più numerosi i dissidenti che nella notte – come a Teheran nel 1979 – salgono sui tetti al grido di «Allahu Akbar». Se c’è chi si mobilità, aumentano pure quelli che fuggono oltre il confine turco. Sono già 2.400 i rifugiati, quasi tutte donne e bam­bini, che hanno lasciato Jisr al-Shughur, città della Siria setten­trionale presidiata dall’esercito dopo gli scontri dei giorni scorsi costati la vita ad almeno 120 uomini delle forze dell’ordine. Gli sfollati sono stati accolti nella tendopoli di Hatay ma, riferisco­no alcune testimonianze, ci sarebbero almeno 5-6mila persone in attesa di passare la frontiera.
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