lunedì 14 maggio 2012
Una grande marcia in Messico per denunciare il fenomeno dei sequestri dei civili nel Paese devastato dalla guerra dei narcos. L’ultimo esempio in America Latina della grande mobilitazione delle donne per la vita e per la giustizia.
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«Per un anno e mezzo sono rimasta seduta in una sedia. Non avevo forze. Riuscivo solo a respirare. Poi, una mattina mi sono detta, devo fare qualcosa. Ed eccomi qui». Mille e trentanove giorni sono circa due anni e dieci mesi. Per Delia García Luna sono un buco nero fuori dal tempo. Un identico succedersi di ore. Un’identica attesa. Il 9 luglio 2009 suo figlio Edson, allora 21enne, è scomparso. Era uscito per incontrarsi con gli amici nella zona di Ejido de los Bravos, a Torreón, nel Nord del Messico. Erano seduti su un muretto quando un commando di uomini armati li ha sorpresi e ha portato via due di loro: Edson e il coetaneo Juan de Dios. Da quel momento, nessuno li ha più visti. “Desaparecidos” è una parola drammaticamente ricorrente nel Messico della “narco-guerra”. Non solo i feroci cartelli della droga ma spesso anche le forze dell’ordine – accusano le organizzazioni per la difesa dei diritti umani – sequestrano i civili. Per estorcere loro informazioni, per costringerli a lavorare per il crimine, per semplice dimostrazione di potere. Nessuno conosce con esattezza il numero degli scomparsi, perché il registro nazionale è stato appena istituito. La Commissione per i diritti umani parla di almeno 5mila desaparecidos. Secondo fonti militari potrebbero essere il doppio o del triplo. A questi poi si devono aggiungere i 20mila centroamericani rapiti ogni anno dalle bande criminali mentre attraversano il territorio messicano nel disperato tentativo di raggiungere gli Usa. La maggior parte non fa ritorno a casa. Per tutti gli assenti, centinaia di madri hanno marciato per oltre mille chilometri, dagli Stati del Nord – Chihuahua, Coahuila e Nuevo León – fino al cuore di Città del Messico, in occasione della festa della mamma. Ad accompagnarle, le organizzazioni che negli ultimi anni si battono per i desaparecidos, tra cui il centro Fray Juan de Larios, della diocesi di Saltillo, fondato dal vescovo Raúl Vera, che ha svolto un’azione determinante. In contemporanea si sono svolte iniziative analoghe in Salvador, Guatemala e Honduras, Paesi da cui proviene la quasi totalità dei migranti scomparsi in Messico. Sulle maglie bianche delle donne, spiccava la scritta rossa: «Dove sono?». È la prima “marcia delle madri” messicane. Ma è anche l’ultima di una lunga serie di mobilitazioni al femminile in America Latina. Dove proprio le donne sono state, negli anni Settanta e Ottanta, le straordinarie protagoniste della resistenza civile contro le dittature. E tuttora combattono in prima linea per la giustizia. «Soprattutto lottano e hanno sempre lottato per difendere i figli. È un istinto viscerale che dà loro la forza di uscire di casa e di irrompere sulla scena pubblica – dalla quale per ruolo erano in genere escluse – e di affrontare minacce, violenza, a volte perfino la morte pur di salvare chi amano», afferma la scrittrice argentina Elsa Osorio, divenuta nota in Italia con I vent’anni di Luz, edito da Guanda e che ora ha da poco pubblicato (sempre per Guanda), La miliziana>. Osorio ha uno speciale affetto per le «coraggiose», come lei chiama le Madres de Plaza de Mayo-Linea Fundadora (gruppo nato dopo la divisione dello storico movimento). «Le accompagno nella marcia intorno all’obelisco della piazza l’ultimo giovedì dell’anno. Come donna e come argentina, sono orgogliosa della loro lotta non violenta, della loro opposizione morale al regime militare che governò il mio Paese dal 1976 al 1983. È stata una delle più importanti forme di resistenza di fronte alla brutalità della dittatura», sostiene. Le Madres – che proprio il 30 aprile scorso hanno celebrato 35 anni di lotta – sono state il primo movimento di opposizione femminile di massa del continente.«Già nel 1961, però, in Bolivia c’era stato l’esempio di Domitila Barrios che aveva fondato il comitato “Casalinghe di Pulacayo” per chiedere condizioni di lavoro più umane per i mariti minatori», spiega l’antropologa dell’Università di Torino Silvia Giletti Benso, curatrice del volume Ciudad Juárez. La violenza sulle donne in America Latina, l’impunità, la resistenza delle madri, edito da Angeli. Da allora, questa particolare forma di attivismo al femminile si è moltiplicata. Dalle “Donne per la pace” in Colombia alle indigene contro la violenza in Guatemala e Salvador alle Damas de Blanco a Cuba, sono tanti i movimenti di donne che reclamano giustizia e libertà per i propri cari. La maggior parte di queste non ha alle spalle una militanza politica o sociale. «Tante sono casalinghe, non avevano mai partecipato in modo attivo alla vita pubblica. Anzi, alcune erano legate a un ruolo molto tradizionale di mogli e mamme. Non avrebbero mai pensato di scendere in piazza o  organizzare marce e cortei. Quando la violenza ha fatto irruzione nelle loro vite, colpendo un familiare, però, l’amore è stato più forte di qualsiasi convenzione sociale. Il grido di dolore si è fatto movimento», dice Osorio. Eppure, sorprende questo protagonismo femminile in un continente dove ancora la cultura patriarcale è forte. «La ragione è legata al compito ancestrale della donna – in particolare della mamma – di raccontare, educare, trasmettere le storie della comunità. Le voci sono state la base dell’azione – spiega Giletti Benso –. Al contempo, la capacità di organizzarsi, creare reti, associazioni è stato fondamentale nel far crescere l’autostima delle latinoamericane». Che, in Messico come in Argentina come a Cuba, continuano a gridare con determinazione: «Nunca más» (mai più).
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