venerdì 28 giugno 2019
Il leader Usa ha ottenuto che i richiedenti asilo restino oltre il confine in attesa di risposta. Il Paese invece è un’autentica trappola con 2.900 adulti e bambini uccisi ogni mese
COMMENTA E CONDIVIDI

Ogni ora, in Messico, a maggio, sono state assassinate quattro persone. Novantasette al giorno, per un totale di 2.903 vittime. È stato il mese più violento della storia contemporanea del Paese. Un record che si somma a quello del semestre più cruento di sempre, con 17.500 persone massacrate da dicembre a maggio. Da quando, cioè, Andrés Manuel López Obrador è entrato al Palazzo presidenziale di Los Pinos. Lo stesso politico che aveva promesso «una quarta trasformazione». Il nuovo Messico che il presidente sta costruendo somiglia, però, tragicamente, a quello vecchio. È indubbio – gli stessi critici del capo dello Stato lo ammettono – che la situazione avesse raggiunto una gravità tale da non poter essere risolta in sei mesi come in sei anni. Negli ultimi decenni, le mafie del narcotraffico hanno catturato interi pezzi di istituzioni che combattono dalla parte dell’uno o dell’altro gruppo. La popolazione viene tenuta sotto controllo con una politica di terrore indiscriminato: da qui il bagno di sangue. Incrementato – sostengono alcune fonti – dalla poca disponibilità a “trattare”. Tuttavia, la una nuova politica – di tipo sociale e non esclusivamente militare –, promessa dal governo per sottrarre i giovani al richiamo potente dei narcos, è rimasta sulla carta. Al momento, l’unica innovazione del presidente è stata la creazione della Guardia nazionale, un nuovo corpo dispiegato in funzione anti-crimine. Nel mentre, López Obrador continua a ribadire che la violenza è «sotto controllo». Purtroppo non lo è. E i dati lo dimostrano. La Rete per i diritti dell’infanzia in Messico (Redim) ha denunciato l’assassinio di tre bimbi ogni giorno, per un totale da 285. L’anno scorso ne sono stati uccisi 1. 238, 4,9 casi ogni 100mila abitanti. Un minore ha maggiori possibilità di essere ammazzato in Messico piuttosto che in Siria, in Iraq o in Afghanistan. Eppure, per Donald Trump, il Messico è «un Paese sicuro». Brandendo la scure dei dazi alle importazioni dal vicino, la Casa Bianca ha cercato in ogni modo a costringerlo ad accettare tale definizione. Che ha un notevole impatto dal punto di vista migratorio.

Quando una persona abbandona il proprio Stato per chiedere rifugio in un altro, quest’ultimo può inviarlo in un «terzo Paese sicuro» in grado di garantirgli i medesimi standard di protezione. Se il Messico fosse «sicuro», Washington potrebbe “spedire” là le centinaia di migliaia di persone che presentano istanza d’asilo sul proprio territorio. È la cosiddetta “esternalizzazione” delle frontiere. L’Unione Europa ha impiegato questo sistema con la Turchia. E qualcuno avrebbe voluto replicare un simile accordo con la Libia. Il Messico, durante il serrato negoziato con la Casa Bianca, è riuscito a sottrarsi alla morsa del terzo Paese sicuro. Almeno sulla carta. La realtà è più complessa. Una delle clausole prevede l’ampliamento del programma “Remain in Mexico”. Approvato a dicembre da López Obrado, il piano consente che i richiedenti asilo negli Usa aspettino l’esito dell’istanza sul suolo messicano. In origine, tre città di confine erano state abilitate a ricevere gli esuli di ritorno: Tijuana, Mexicali e Ciudad Juárez, tra le più violente del Paese. Fino a maggio, ne erano stati inviati poco più di 5mila. Dall’entrata in vigore dell’intesa, in meno di tre settimane, il numero ha superato quota 15mi- la. Ogni giorno, almeno 400 migranti vengono rispediti indietro, per un attesa che può durare anche due anni. A breve, Nuevo Laredo e San Luis Colorado, diventeranno luoghi di accoglienza. Non solo. La Casa Bianca ha già precisato che se il flusso non si ridurrà, la questione del Paese «sicuro» verrà rinegoziata. Da qui la solerzia di López Obrador nel dispiegare i propri uomini ai due confini per fermare gli irregolari. Questi, in teoria, non hanno la funzione di arrestare. In realtà, i blitz sono un dato di fatto. È la paura a spingere tanti fra le braccia dei “coyotes”, trafficanti di esseri umani. Le cui reti sono legate a doppio filo ai narcos. Molto spesso, per raccimolare il prezzo del passaggio – intorno ai 5mila dollari – gli irregolari vengono reclutati, più o meno volontariamento, dalle mafie. Gli attivisti hanno denunciato un incremento dell’arruolamento forzato lungo la frontiera. L’alternativa è cerare punti di attraversamento ad alto rischio.

È stata questa la scelta di Óscar Martínez e della piccola Valeria: lo scatto dei loro corpi annegati nel Rio Grande ha fatto il giro del mondo. Anche la madre di Óscar, Rosa ha visto la foto. «Quando l’ho abbracciato sentivo che sarebbe stata l’ultima volta», ha detto la donna ieri. Eppure non è riuscita a fermarlo. Ne lo fanno soldati, muri o accordi tra governi. Perché – come ha scritto la scrittrice Valeria Luiselli – «non è nemmeno il sogno americano che inseguono, piuttosto l’aspirazione ben più modesta di svegliarsi dall’incubo in cui sono nati».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: