venerdì 9 dicembre 2016
«Fuga di civili in massa dai villaggi. Popolazione sull’orlo della carestia». Non si ferma lo scontro armato, per ragioni prettamente di potere, tra i dinka e i nuer
In Sud Sudan l’Onu denuncia: è pulizia etnica
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«Il popolo del Sud Sudan ha sofferto davvero tanto e per troppo tempo. Le vittime di questo conflitto nutrono ancora delle speranze e hanno grandi aspettative nei confronti della comunità internazionale. Tutti quelli coinvolti, specialmente i leader sudsudanesi, non devono perdere di vista l’obiettivo finale: pace e prosperità per il futuro del Paese». Le parole di Ellen Margrethe Løj, a capo della missione Onu in Sud Sudan (Unmiss), portano con sé la rabbia dell’impotenza.

«Una tragedia senza precedenti – affermano gli esperti che da decenni seguono la storia sudsudanese –: pulizia etnica, fuga di civili in massa, gran parte della popolazione sull’orlo della carestia». A tre anni dall’inizio della guerra civile, la crisi politica in Sud Sudan continua ad aggravarsi. Gli scontri tra le due principali etnie, i dinka del presidente Salva Kiir e i nuer dell’ex vice presidente Riek Machar, hanno raggiunto un livello di ferocia mai visto prima. Ma i combattimenti stanno travolgendo anche le etnie minori.

«Le violenze potrebbero aumentare attraverso un’ottica etnica in vista di un possibile genocidio », ha recentemente dichiarato il senegalese Adama Dieng, consigliere speciale Onu per la prevenzione dei genocidi, appena tornato da una missione nel Paese. «Sono chiare le violazioni del coprifuoco da parte di tutte le fazioni e la totale mancanza di responsabilità per i terribili atti commessi. Quello che prima era un esercito indisciplinato diviso tra dinka e nuer – spiega ancora Dieng –, è ora un corpo amorfo fatto da diversi gruppi armati, gang di criminali e banditi di ogni tipo su cui il governo non esercita alcun tipo di controllo ». Settimana scorsa Kiir si è rifiutato di confermare il quadro del Paese delineato dai funzionari dell’Onu: «Non è così. Non c’è alcuna pulizia etnica in Sud Sudan», ha detto il presidente davanti alla stampa internazionale. Gli operatori umanitari sul campo parlano però di «interi villaggi bruciati e sparizioni di persone».

Una situazione davanti alla quale troppo spesso l’Onu non ha saputo o voluto reagire, nonostante la sua costante presenza nella più “giovane nazione del mondo”. Non a caso, durante i prossimi mesi, Unmiss sarà rinforzata con l’aggiunta e una parziale ristrutturazione del personale, tra militari dei caschi blu e funzionari civili. Il peggio, infatti, sembra debba ancora venire. «In qualsiasi parte del Paese in cui siamo andati – ha ammesso Yasmin Sooka, membro della Commissione Onu per i diritti umani in Sud Sudan –, gli abitanti dei villaggi ci assicuravano di esser pronti a versare il loro sangue per riappropriarsi dei terreni perduti». E con l’imminente stagione secca, la popolazione sa che i combattimenti e la carestia sono destinati ad intensificarsi.

«Oltre 3,5 milioni di sudsudanesi soffrono di una grave mancanza di cibo – recita una nota del Programma alimentare mondiale (Pam) –. Senza aiuti, tra gennaio e aprile, il numero aumenterà fino a 4,6 milioni, un’insicurezza alimentare mai vista prima nel Paese». In molti, infatti, hanno già cominciato a scappare negli Stati limitrofi, i quali sono spesso incapaci di ospitare tali ondate di profughi. Da agosto, più di 4mila persone al giorno sono arrivate in Uganda, mentre altre 36mila hanno raggiunto l’Etiopia da settembre. E oltre 57mila sono arrivate quest’anno nella Repubblica democratica del Congo (Rdc). «Non abbiamo abbastanza mezzi per aiutare tutti – ammette Medard Mabe, coordinatore della Croce Rossa in Congo –: non c’è più cibo».

Il conflitto perenne

Dopo l’indipendenza raggiunta nel luglio 2011 dal Sudan, il Sud Sudan non è riuscito a lasciarsi alle spalle l’instabilità. A più riprese si riaccendono le ostilità scoppiate nel dicembre 2013 tra le forze del presidente Salva Kiir e quelle dell’ex vicepresidente e attuale leader dei ribelli Riek Machar. I temporanei accordi di pace non sono mai stati rispettati: ancora cinque mesi fa si sono registrati 300 morti in pochi giorni, mentre i profughi sono decine di migliaia. Negli ultimi mesi Machar si è spostato tra Congo, Sudan e Sudafrica, ma punta a tornare «presto» a Juba.

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