venerdì 12 maggio 2023
Il francese Arman Soldin e l’ultima fotografia a Bakhmut
Il selfie del reporter Arman Soldin, ucciso in Ucraina

Il selfie del reporter Arman Soldin, ucciso in Ucraina - Ansa / Afp / Arman Soldin

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Tra le foto sui media di due giorni fa e che oggi, come sempre, ne sono già sparite, c’era quella di un giovane giornalista francese, Arman Soldin, rimasto ucciso in Ucraina, vicino a Bakhmut. Nato a Sarajevo nel 1991, un anno prima dell’assedio, era in Ucraina per Agence France Presse dall’inizio del conflitto. Giovanissimo e già esperto, Soldin è ricordato dai suoi colleghi con grande stima e affetto, e soprattutto per la sua umanità - uno degli ultimi suoi servizi, la sofferenza dei feriti ucraini nelle trincee. In quella foto che sui media durerà 24 ore il giovane bosniaco ha una faccia sorridente, giocosa pure sotto l’elmetto da giornalista embedded e il giubbotto antiproiettile con su scritto in grande «PRESS», stampa.

Ma mi ha colpito che sulla spalla di Armin ci fosse, fiducioso ed evidentemente ben accolto, un gattino rosso malnutrito, scappato da una casa bombardata forse, probabilmente in cerca di cibo. Il gatto se ne stava tranquillo sulla spalla del reporter, che rideva, contento di quell’incontro lieto tra tanto sfacelo. Un particolare che mi ha ricordato qualcosa di lontano nel tempo, ma simile.

Autunno 1942, anche allora guerra, e non troppo lontano dal fronte ucraino. La Divisione alpina Julia avanzava verso Est. Non era ancora inverno, non c’era ancora il gelo. Mio padre, sottotenente di 28 anni, scrisse alla fidanzata, la mia futura madre, di un pomeriggio passato sotto il fuoco dell’Armata Rossa in un bunker, dove si era ritrovato solo. E sarebbe stato molto lungo quel pomeriggio, raccontava, se – e mi sembrava qui di scorgere un sorriso – non gli avessero tenuto compagnia due gattini, due cuccioli chissà come capitati lì, che nella penombra del rifugio, nel boato dei cannoni, non smettevano di giocare, come due bambini. Di modo che, concludeva mio padre la lettera, «Quando questa guerra sarà finita tornerò, e noi due avremo una casa, due bambini, e un gatto». I bambini poi furono tre, e il gatto mia madre non lo volle, ma ricordo come ogni volta che per strada mio padre si imbatteva in un gatto si fermava, per un minuto di carezze. Forse ricordando ancora quel giorno nella steppa, e come due gattini erano riusciti, nell’angoscia, a farlo sorridere.

Il giovane collega morto a Bakhmut e un padre allora altrettanto giovane mi sembrano affini, in quel cercare tra la polvere delle macerie, tra le vite e le case sconvolte degli uomini, una piccola traccia di innocenza. Chi è morto, chi è ferito, chi è fuggito: ma qualcosa di morbido ti sfiora una gamba, un giovane gatto ignaro del male del mondo, in cerca di un boccone. Nella disumanità della guerra, prezioso anche un randagio col suo candore, col suo desiderio di vivere. 79 anni sono passati, nella stessa regione sono tornati i carri armati, ma anche missili “intelligenti”, e fantascientifici droni. Gli uomini non smettono il mestiere della guerra, anzi, progrediscono in tecniche più micidiali. Anche i gatti non smettono nel loro mestiere: cacciare prede, rincorrersi sui tetti e, anche, portare la loro selvatica innocenza fra noi. Un’innocenza più preziosa nel trionfo dell’odio, quando tutto ciò che è civiltà e desiderio di vivere sembra rinnegato. Allora anche un gatto, con la sua fame, col suo giocare, può ricordare che nulla, nella creazione intera, è fatto per la morte. E chi è abbastanza attento da accorgersene – come il giovane giornalista ucciso, come mio padre ragazzo – a queste creature apparentemente così piccole è grato.

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