mercoledì 30 marzo 2016
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NEWYORK Il caso è chiuso, ma il dibattito è sempre più bollente. Il governo americano riesce a “scassinare” il cellulare di uno dei terroristi di San Bernardino senza l’aiuto della Apple, che aveva rifiutato di collaborare con il Fbi innescando una battaglia legale. Le forze dell’ordine gioiscono, la presunta inviolabilità dei nuovi modelli di portatile della società di Cupertino subisce un forte smacco, la comunità degli utenti si divide in due, fra chi mette la privacy dei propri dati prima di tutto e chi ammette eccezioni in nome della sicurezza comune. Mentre la tecnologia delle telecomunicazioni si conferma il nodo della difficile collaborazione fra pubblico e privato nella prevenzione di attacchi terroristici e nella difesa dei cittadini. Un mese e mezzo dopo aver incassato il no di Tim Cook, amministratore delegato di Apple, a cooperare nell’inchiesta su Syed Rizwan Farook – che, con la moglie, lo scorso dicembre uccise 14 persone in nome del jihad – la polizia federale ha annunciato di non aver più bisogno che Apple apra una «porta sul retro» per accedere ai dati criptati dell’iPhone. Sarebbe stata una società israeliana, la Cellebrite, che da anni collabora con il Fbi, a sbloccare il telefono del sospetto, che è stato ucciso dalla polizia. Di conseguenza, il dipartimento di Giustizia Usa ha chiuso il caso legale contro il produttore dello smartphone, che aveva respinto l’ordine di un giudice di creare un software capace di abbassare le difese dell’iPhone, permettendo al Fbi di bombardarlo con una marea di password fino a trovare quella giusta. Le autorità competenti «hanno con successo recuperato i dati», ha fatto sapere il ministero, e al Fbi li sta analizzando «in linea con le procedure standard di indagine », nella speranza di trovare informazioni utili o potenziali legami di Farook con gruppi terroristi. Apple ha incassato il colpo, ma non ha fatto marcia indietro. «Sin dall’inizio, abbiamo contestato la domanda del Fbi perché credevamo che fosse sbagliato e che avrebbe creato un precedente pericoloso. Il caso non doveva nemmeno essere sollevato», ha det- to un portavoce. Ma è innegabile che la vicenda danneggi l’immagine della società, smentendo che i suoi dispositivi sono a prova di hacker. Non a caso, l’azienda ieri ha assicurato: «Continueremo ad aumentare la sicurezza dei nostri prodotti mentre le minacce e gli attacchi ai nostri dati diventano più frequenti e più sofisticate». Per il colosso co-fondato da Steve Jobs è una questione di principio: la protezione dei dati non può essere sacrificata per la ricerca della sicurezza. Non tutti la pensano allo stesso modo. Secondo un sondaggio del Pew Research Center, il 62 per cento degli americani ritiene importante che il governo indaghi su possibili minacce terroriste, anche se facendolo invade la sfera personale dei cittadini. Un problema che era emerso con forza quando Edward Snowden aveva portato alla luce il massiccio controllo dei tabulati telefonici da parte della National Security Agency. La battaglia tra il governo e Apple non è comunque finita. I legali del gruppo hanno detto di volere sapere quale metodo è stato usato per sbloccare l’iPhone, in modo da potervi porre rimedio ed evitare che la debolezza sia sfruttata da altri. Ma non è detto che Washington voglia condividere l’informazione. «Al momento sappiamo che questo strumento funziona sull’iPhone 5c che è stato trovato nel caso di San Bernardino, che era dotato di una versione del sistema operativo iOS 9 – ha spiegato un funzionario Usa – e non possiamo commentare sulla possibilità che in futuro quel metodo sia svelato». Se il metodo diventasse top secret, potrebbe aumentare i dubbi sulla sicurezza dei prodotti Apple. © RIPRODUZIONE RISERVATA I DUE KILLER. Syed Rizwan Farook con la moglie Tashfeen (Ansa)
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