Ognuno davanti agli altri, agli occhi della moglie, dei figli e viceversa. In un ambiente circostante dove il degrado e le condizioni igieniche e sanitarie sono messe a dura prova.
La speranza che quel cancello svanisca come per incanto e, dunque, un varco si spalanchi per farli scivolare via tutti da qui, come un torrente ribelle, non vuole scivolare via da queste mani nere di terra, che cucinano e stringono altre mani, per dare loro il benvenuto.
La gente qui a Idomeni, i profughi della guerra che hanno condiviso la propria vita con la morte, non vogliono farsi soggiogare da quello che sembra un "gioco delle attese", condotto lontano da questo luogo desolato, affacciato su una frontiera, quella macedone, che sembra non importare più a nessuno.
"Non era questo che ci aspettavamo, quando siamo fuggiti dalla guerra. Perché se siamo andati via dal nostro Paese, lo abbiamo dovuto fare non per avere pane e aiuto, ma per salvare le nostre vite dai bombardamenti e dai cecchini", dice un anziano, accanto alla moglie velata di nero, intenta a cucinare una zuppa di quattro cipolle e due pomodori, rimestata nel fondo di un barattolo di latta, nero di fuliggine, che penzola su un fuoco improvvisato, all'aperto.
Idomeni, una buona ora d'auto da Salonicco e a nemmeno un braccio allungato distante dal muro di confine serrato dal doppio filo spinato che separa la Grecia da Fyrom (l'ex Repubblica jugoslava macedone), per almeno 15.000 migranti, siriani, curdi e iracheni, è un punto nel nulla e nella solitudine, se non fosse per la presenza di volontari greci e qualche Ong internazionale, davanti a un cancello chiuso e controllato da poliziotti, dell'una e dell'altra parte, in assetto antisommossa.