mercoledì 3 agosto 2022
L'anniversario sembra segnare solo il passare del tempo. A luglio il vertice di Teheran ha sancito la spartizione del terreno in base agli interessi delle potenze. Ma nessuno si ricorda delle vittime
Yazidi in fuga dalle montagne del Sinjar nel 2014 pochi giorni dopo l'invasione del Daesh

Yazidi in fuga dalle montagne del Sinjar nel 2014 pochi giorni dopo l'invasione del Daesh - Reuters

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È come se milioni di siriani vivessero in un eterno dietro le quinte della storia. In fondo quel che avviene nella “guerra dopo la guerra” – svanite le fanfare di accordi diplomatici e successi politici da sbandierare – è negli anni il migliore dei “regolamenti dei conti”: spartizione in aree di interesse e proseguimento della guerra per procura fra i vincitori in chiave economica. L’avvicinarsi dell’ottavo anniversario del genocidio degli yazidi, come della fuga in Iraq dei cristiani siro-cattolici e caldei dalla Piana di Ninive, segna solo l’inerzia del passare del tempo. Lo stesso avviene in Siria nell’ultima provincia ribelle di Idlib, ricettacolo di tutte le opposizioni al regime di Damasco, senza che l’esercito siriano riesca a raggiungere i suoi obiettivi che vanno a contrastare quelli della Turchia. Ed è proprio questo gioco delle alleanze fra vincitori più o meno certi che rende palese chi siano i veri perdenti.

La dimostrazione plastica è stata il vertice di Teheran del 19 luglio che avrebbe dovuto rimettere in marcia il processo di pace avviato dai Colloqui di Astana, iniziati nel 2017 dalla triade Russia-Iran-Turchia. Sono state queste tre potenze – regionali o internazionali – a sancire negli anni la spartizione della Siria in aree di influenza, con la sola “zona franca” dei curdi che Erdogan ha chiesto ripetutamente di 'bonificare'. Il segnale è chiaro: nessun piano di pace scritto dalle trattative delle Nazioni Unite a Ginevra per la Siria avrà mai gambe e sostanza senza il benestare, e un concomitante concorso di interessi, delle tre capitali che hanno in pugno quest’area del Medio Oriente. Il pur comprensibile tentativo di Biden di un “grande reset” delle relazioni internazionali in Medio Oriente, è giunto dopo gli anni del disimpegno di Donald Trump da tutta l’area e con risultati per la Casa Bianca ancora molto incerti. L’obiettivo di Biden di unire, sulla scia degli Accordi di Abramo, Israele e Arabia Saudita, capofila delle monarchie sunnite del Golfo, lascia un campo aperto nel profondo Medio Oriente sciita. Un vuoto geopolitico, in realtà già da tempo riempito da altri attori. Dopo il vertice di Teheran di metà luglio, è evidente la saldatura della mezzaluna sciita con la politica di potenza del Cremlino e con la Turchia – terzo incomodo – a fare da arbitro in una triangolazione di interessi all’apparenza inconciliabili. Un membro della Nato, la Turchia appunto, capace di fare affari con l’Iran sospettato da oltre un decennio di ambizioni da potenza nucleare; la stessa Turchia che ospita il più grande numero di profughi al mondo che si sintonizza con l’asse Teheran-Mosca che ha fatto della Siria una intera nazione di sfollati e profughi.

Eppure è proprio questo sedersi al tavolo in nome di una politica di potenza che dimostra come il nuovo Medio Oriente, a quasi 20 anni dall’invasione statunitense delll’Iraq, ora è nato. Infatti nessuno ha chiesto ai rappresentanti della società siriana di essere presenti a Teheran per verificare la possibilità di avviare un processo di riforma costituzionale. Così come nessuno a Baghdad ha dato opportunità agli yazidi di chiedere giustizia per il loro genocidio. Il nuovo Medio Oriente è fatto, invece, di accordi fra Mosca e Teheran per investimenti pari a 40 miliardi di dollari, definiti il «più grande investimento nella storia dell’industria petrolifera iraniana» mentre Ankara e Teheran hanno concordato di estendere per altri 25 anni il contratto di forniture di gas. Il principio dell’inviolabilità territoriale della Siria è stato solennemente sancito in Iran senza che nessun rappresentante di Damasco fosse presente. L’obiettivo dei leader della nuova 'troika' che guida il profondo Medio Oriente è la «lotta al terrorismo»: una pax mediorientale funzionale a sostenere il progetto egemonico di Putin in Ucraina e le mire neo ottomane di Erdogan. Sulle spalle di siriani e yazidi, ormai dimenticati.

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