domenica 26 luglio 2015
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Nella guerra allo Stato islamico Barack Obama ha scelto di camminare sul filo del rasoio. Da un lato, la Turchia di Recep Tayyip Erdogan e, dall’altro, l’Iran nucleare degli ayatollah. In mezzo, un presidente statunitense che, restaurando le geometrie variabili di antica memoria, ha offerto ai propri interlocutori concessioni fino a poco tempo fa inimmaginabili per i soggetti «poco affidabili» in questione. Per far smuovere il sultano Erdogan dalle sue posizioni equivoche (a dir poco) nei confronti dello Stato islamico, il capo della Casa Bianca ha dovuto – e lo stanno a testimoniare i bombardamenti sulle postazioni del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) in nord Iraq – dare mano libera all’aviazione turca contro i curdi. Che sono il nemico storico di Ankara e minaccia impellente per Erdogan, ancora più di Bashar al-Assad che una volta di più sembra aver ottenuto un’altra sorsata di elisir di lunga vita per restare in sella. In cambio, da Ankara il presidente Usa ha ottenuto l’uso della base strategica Nato di Incirlik e una rinnovata “amicizia turca”. Ma l’insidia è in agguato: le truppe curde delle Unità di protezione popolare (Ypg), che tanto hanno contribuito a fermare l’avanzata dei jihadisti del califfo, resteranno ancora a disposizione? I peshmerga si limiteranno invece a circoscrivere i confini di quel Kurdistan iracheno, che ormai commercia petrolio ed è pronto allo strappo finale con Baghdad? (La nascita di uno Stato curdo ai confini turchi è una delle maggiori preoccupazioni per Erdogan, che ieri ha incassato la «condanna» del presidente della regione autonoma del Kurdistan, Massud Barzani). Sul fronte opposto c’è invece l’Iran, con le sue ambizioni di divenire sempre più potenza regionale. Anche a scapito della Turchia. A Teheran Barack Obama non può aver negato, nella estenuante trattativa per l’accordo sul nucleare, rassicurazioni sulla permanenza al potere del grande alleato di Damasco: Assad. Lo stesso presupposto che, per ragioni meramente “pratiche”, anche Erdogan sembra avere ingoiato (almeno per ora). L’Iran, da parte sua, ha offerto «grande collaborazione», soprattutto in buoni uffici con Damasco, ma essenzialmente con appoggi logistico-militari soprattutto in Iraq contro le forze del califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Si è creata, quindi, una sorta di morsa: da un lato, la Turchia con il suo “appoggio esterno” alla Coalizione anti-Is e, dall’altro, gli sciiti di Teheran che fanno altrettanto, soprattutto nello scenario finitimo iraniano. Due posizioni che trovano un equilibrio (instabile), nelle promesse fatte e ottenute dalla Casa Bianca. Che ha giocato su due tavoli e che, nel nome della sconfitta del Califfato, ha deciso di andare “a vedere” in un gigantesco poker mediorientale. Al cui tavolo non sono stati invitati né Israele né lo stesso Congresso statunitense, che potrebbe, da qui a poche settimane rialzare il fuoco di sbarramento contro un presidente “anatra zoppa” e a poco più di un anno dalla fine del mandato. L’unica cosa certa, lo ammettono anche gli analisti militari più simpatetici, che le basi aree offerte o il supporto iraniano potranno rallentare l’espansione del Califfato. Non saranno però «risolutive», come qualcuno a Washington sta invece ripetendo in queste ore.
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