mercoledì 12 giugno 2013
Nella Giornata contro l’occupazione minorile, l’Organizzazione internazionale del lavoro punta il dito contro quella che viene considerata tra le forme più nascoste di abuso Perché spesso nel Sud del mondo viene socialmente accettata Anche nel migliore dei casi, il piccolo non riceve cure adeguate né tantomeno formazione
INTERVISTA
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«Ora? Voglio solo essere felice». Per il domani non ha programmi precisi María Luisa. Non che le manchino le idee: solo non è abituata a fare progetti per il futuro. Nemmeno per il presente in realtà. Nei suoi 17 anni di vita, qualcuno – cioè lei, “la señora” – le ha sempre detto che cosa fare. O meglio che cosa non fare. L’elenco dei divieti è lungo. Dai 13 anni, quando ha lasciato il suo minuscolo villaggio natale, incastonato tra le Ande peruviane, ed è arrivata a Cusco per fare da domestica alla “señora”, María Luisa non ha mai potuto restare a letto oltre le 5 del mattino, né sedersi a tavola per consumare i pasti, né ritagliarsi un’ora per giocare in strada, a palla, come le piaceva tanto. Per 16-18 ore doveva pulire, rassettare, cucinare, lavare, stendere, a ciclo continuo, senza mai un giorno di riposo. María Luisa lo racconta quasi senza emozioni. Neppure quando parla dei pestaggi continui per via della sua “cronica” lentezza nei movimenti – dovuta a una displasia all’anca – la voce della ragazzina si incrina. La sua è la stoica rassegnazione di chi è abituato a vivere sulla propria pelle le ingiustizie. Solo alla speranza di frequentare la scuola, María Luisa non ha mai rinunciato. E, infatti, dopo molte insistenze è riuscita a convincere “la señora” a mandarla in classe, almeno qualche volta. Una svolta che ha segnato il suo destino: un’insegnante si è accorta della difficile situazione dell’adolescente e ha denunciato il caso alla polizia. Così, María Luisa ha trovato il centro Yanapanakusun di Terre des Hommes che l’ha fatta operare all’anca e le ha permesso di conseguire il diploma. «Credo di essere felice. Ma non so bene che cosa significhi», conclude. Del resto, la gioia è un sentimento inusuale per le oltre 4mila baby domestiche sfruttate nella sola Cusco. Un numero impressionante. Eppure minimo in confronto alla quantità di bambini impiegati come domestici nel mondo. Il rapporto presentato ieri dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) – in occasione della Giornata mondiale contro il lavoro minorile – lascia interdetti. Sono almeno 15,5 milioni i minori in condizioni di servitù: la gran parte è concentrata nel Sud del mondo. Dall’Asia all’America Latina, i baby domestici sono una costante. E si tratta, per altro, di un calcolo al ribasso. La maggior parte ha meno di 14 anni. I due terzi, inoltre, sono bimbe. Tutti svolgono mansioni da adulti: andare a prendere l’acqua, pulire, badare ad altri piccoli o ad anziani. E tutti sono sfruttati: il salario – sempre che arrivi – è di molto inferiore a quello minimo, le ferie e i riposi sono a discrezione del datore di lavoro. Il cui potere è infinitamente maggiore di quello del piccolo impiegato. Se per un maggiorenne povero è difficile far valere i propri diritti, per un bambino o, al massimo, adolescente è praticamente impossibile. Oltretutto, spesso, nemmeno conoscono le proprie prerogative: gran parte di loro non sa nemmeno leggere e, difficilmente, il lavoro domestico è compatibile con gli studi. In questo marasma confuso di abusi invisibili, si nascondono i casi di vera e propria schiavitù. Sono almeno 10 milioni i baby schiavi alle dipendenze di famiglie più o meno benestanti. Che considerano la pratica «normale» data l’esistenza, spesso, di “giustificazioni” sociali e culturali. Da qui la natura ambigua della relazione tra piccolo e titolare: in quest’ultimo i ruoli di “padrone” e “benefattore” si intrecciano fino a confondersi. Non è raro che alcuni datori di lavoro ritengano – qualche volta pure in buona fede – di dare una mano al piccolo servitore. Da qui la scelta dell’Ilo di concentrare l’attenzione su questo fenomeno invisibile e sottostimato. Perché – anche quando non vengono sottoposti a violenze e maltrattamenti o costretti a svolgere mansioni pericolose – i baby domestici patiscono una sistematica «carenza di attenzione», si legge nel rapporto. «Il bimbo lavora ma non è considerato un lavoratore e, sebbene viva in un contesto familiare, non riceve il trattamento di un membro della famiglia», sottolinea lo studio. La natura “sfuggente” di questa forma di sfruttamento minorile la rende difficile da combattere. «Solo un’azione congiunta a livello nazionale e internazionale può consentire di eliminarlo – conclude Constance Thomas, direttore del Programma internazionale contro il lavoro minorile dell’Ilo –. Ci vogliono leggi per identificarlo e prevenirlo e per offrire condizioni di impiego decenti agli adolescenti che raggiungano l’età minima per lavorare».
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