mercoledì 7 marzo 2012
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​Il nero della fuliggine soffoca i muri: si fa fatica a scorgere tracce della vernice gialla che, fino a venti giorni fa, li copriva. Della recinzione resta un groviglio di ferri accavallati. Solo questo sopravvive del carcere modello di La Granja, vicino a Comayagua, a 80 chilometri dalla capitale Tegucigalpa. Quando fu costruito, oltre tren’anni fa, lo chiamavano la “prigione modello”, perché c’erano laboratori artigianali per i detenuti e camerate spaziose. Difficile crederci ora: le immagini di celle sovraffollate fino a scoppiare, materassi putridi, uomini affamati e abbandonati hanno fatto il giro del mondo quando il 15 febbraio scorso un incendio ha distrutto la struttura. Uccidendo 370 prigionieri, rimasti intrappolati tra le fiamme. Ora, tre settimane dopo, lo scheletro diroccato di La Granja è la metafora perfetta e terribile dell’Honduras e della sua agonia. Un fuoco inesorabile consuma il Paese: la violenza. O meglio la “narco-violenza”. I risultati dell’ultimo rapporto del International Narcotics Control Board (Incb) – ente indipendente che valuta i progressi nella lotta al narcotraffico per conto dell’Onu – sono allarmanti. I cartelli della droga, in particolare messicani, hanno ridotto la nazione a trampolino di lancio della cocaina verso gli Stati Uniti. Sono i narcos a finanziare e reclutare come sicari i giovani sbandati delle gang dei quartieri poveri, le cosiddette maras: se ne contano oltre 900. Un esercito di 70mila ragazzi, spesso adolescenti, incaricati della bassa manovalanza criminale. Per ogni omicidio, prendono in media cinquanta dollari: una cifra astronomica in un Paese dalla miseria cronaca. L’Honduras è, dopo Haiti, la nazione più disperata dell’America Latina: il 65 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. La fame è il fuoco che alimenta la violenza. Non a caso, il recente rapporto dell’ufficio Onu contro la droga (Unadc) definisce l’Honduras e i vicini Salvador e Guatemala – che insieme formano il cosiddetto “Triangulo Norte”– le nazioni più letali del mondo, dove un uomo su 50 muore prima di aver compiuto 31 anni. L’anno scorso, 6.236 honduregni sono morti ammazzati. E da gennaio la situazione è peggiorata. A pochi chilometri dal set del reality show “L’isola dei famosi”, migliaia di persone vengono massacrate, al ritmo allucinante di 17 vittime al giorno. Altre fonti umanitarie parlano di una cifra perfino più alta: oltre 20 omicidi quotidiani, quasi uno all’ora. Come descrive la lettera scritta dal missionario comboniano Manuel Ceola e inviata, oltre ad Avvenire, anche alla direzione della Rai, che trasmette il programma. «L’Honduras è considerata la seconda nazione, più povera, o meglio impoverita, dell’America Latina e, secondo il cardinale Oscar Andrés Rodríguez Maradiaga, arcivescovo di Tegucigalpa: “Il Paese sta sanguinando, ferito a morte dalla violenza, dalla povertà crescente, dalla mancanza di rispetto per la vita e dalla corruzione delle forze dell’ordine”». La geografia e la storia “complottano insieme” per mantenere il caos nel Paese. La posizione strategica lungo la “rotta della coca” e l’eredità di decenni di instabilità e convulsioni hanno in modo che la violenza si trasformasse da politica a criminale. Non che la prima sia del tutto assente: il 28 giugno 2009 un colpo di stato militare ha destituito il presidente Manuel Zelaya. Il governo civile, che nel dicembre 2009 ha sostituito la giunta golpista, non riesce ad arginare il massacro. Fragilità istituzionale, corruzione e impunità – che supera il 98 per cento – impediscono allo Stato di intervenire in modo efficace. Nonostante la decisione del presidente Lobo di schierare l’esercito in funzione anti-narcos. Per questo, il primo febbraio, l’esecutivo ha chiesto «aiuti internazionali» contro il crimine. Il mondo, però, fatica a mettere a fuoco la mattanza honduregna. Il massacro di la Granja ha catapultato il Paese sulla ribalta internazionale per qualche giorno. Poi, la “Somalia latinoamericana”, secondo la definizione dell’esperto Juan Villalobos, è di nuovo scomparsa dalla scena. E l’Honduras torna ad essere la spiaggia da cartolina dove si svolge «la farsa» – come si legge nella lettera di padre Ceola – dei nostri “famosi”.
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