lunedì 16 luglio 2012
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​Cinquantasei metri quadrati di cemento, verniciati di un crema tenue, con sfumature marroni, uno accanto all’altro. Dentro lo spazio è diviso in tre ambienti: due camere da letto, un salone con angolo di cottura, il bagno. Intorno un cortile con annesso orto. Insomma una casa vera: dai rubinetti scorre perfino l’acqua corrente. La precisazione sarebbe superflua se non fossimo a Croix-de-Bouquets, alla periferia nord di Port-au-Prince, l’affollata capitale haitiana dove oltre i due terzi della popolazione rifornisce le taniche alle fontane. Per non parlare delle tendopoli, in cui tuttora si ammassano i sopravvissuti del terremoto del 12 gennaio 2010, tra 460 e 680mila persone, secondo fonti umanitarie. Meno di un terzo di loro può usare acqua pulita e appena l’1 per cento ha del sapone. Lo sanno bene gli sfollati di Camp Corail, sempre a Croix-de-Bouquets, circa 47mila persone. Tra il campo e le casette c’è una distanza fisica di alcuni chilometri. Eppure, quando si passa da un luogo all’altro, si ha la sensazione di muoversi tra universi paralleli. Da una parte le buste di plastica come tende, il fango, le macerie. Dall’altra, un villaggio-comunità, piccolo – appena 14 casette – e umile ma dignitoso. Uno dei pochi ad Haiti. Non a caso, gli abitanti hanno voluto chiamarlo, “Colombe”, colomba, il simbolo della speranza. Quella a cui gli haitiani si ostinano a non rinunciare. Nonostante tutto. Proprio da questa caparbia speranza è nata “Colombe”. E da una bella prova di collaborazione tra i locali e i missionari scalabriniani, sostenuti da Caritas italiana. Un esempio che ha fatto scuola: altri finanziatori si sono fatti avanti e ora sono in programma altre 300 case. Il primo blocco di 27 abitazioni sarà pronto il mese prossimo. «La casa è una necessità primaria per i superstiti del sisma. Per questo, è stata fin dall’inizio una delle nostre priorità. Prima, però, voleva ricostruire nelle stesse zone dei crolli. Le macerie ce l’hanno finora impedito, così ci siamo inventati i villaggi-comunità», spiega lo scalabriniano padre Giuseppe Durante, da quasi vent’anni nell’isola. Un progetto di lungo periodo di cui si occupa la Fondation haitienne pour le relèvement ed le développement, creata ad hoc e gestita da un gruppo di haitiani insieme a padre Giuseppe. È stata la fondazione – grazie ai fondi di Caritas italiana – ad acquistare la terra su cui sorgono i villaggi. I beneficiari – scelti tra i più bisognosi, in maggioranza donne sole con bimbi e disabili – versano un affitto di 10 dollari al mese per dieci anni, poi diventano proprietari. Chi non ha i soldi, però, può pagare impegnandosi a svolgere delle ore di lavoro. Tutti devono rispettare una serie di “regole di convivenza”: non costruire altre baracche, non accendere fuochi, non scatenare risse o furti. «Non vogliamo solo ricostruire le case. La nostra idea è quella di rendere gli haitiani protagonisti e responsabili della loro ricostruzione. Non solo destinatari di beneficenza imposta dall’alto. I regolamenti si decidono insieme. Poi, però, tutti devono rispettarli», aggiunge il missionario. È stato questo principio a guidare l’azione di Caritas italiana nei trenta mesi successivi al terremoto. Con oltre 15 dei 24 milioni di euro raccolti, l’organizzazione ha già avviato 119 progetti in vari ambiti: oltre alla prima assistenza, programmi idrici e sanitari, istruzione, sostegno all’attività agricola, microcredito. Questi ultimi due settori sono una delle chiavi per promuovere uno sviluppo sostenibile e soprattutto duraturo nell’isola. Ben prima del terremoto, otto haitiani su dieci vivevano in condizione di miseria estrema. Eppure – fino all’indipendenza, nel 1804 – l’isola era la colonia - fiore all’occhiello della Francia: da Haiti arrivava buona parte delle materie prime consumate nella madrepatria. Poi decenni e decenni di instabilità, politiche sbagliate e di rapina, la deforestazione selvaggia hanno reso la terra un deserto. I raccolti si sono fatti scarsi e, insieme all’agricoltura, si è bloccata l’economia. Per far uscire le persone dal circolo vizioso della povertà, Caritas punta sul sostegno ai coltivatori, attraverso la fornitura di capitali, materiale, sementi e l’insegnamento di tecniche sostenibili. Ci sono ben 63 iniziative in corso e in futuro ne nasceranno altre. Il resto dei fondi raccolti da Caritas infatti – altri 9 milioni – verrà investito negli anni successivi in modo da poter garantire un impegno di lungo periodo sul territorio. Non solo la risposta alla calamità, dunque, ma un programma di assistenza globale, in base alle necessità via via messe in luce dalla Chiesa locale. In modo che gli haitiani abbiano realmente voce in capitolo.
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