sabato 9 aprile 2022
Secondo Oleksiy Arestovych, consigliere del presidente ucraino, insieme a Sumy, la città ha fatto da scudo alla capitale
La gente ammassata in uno scantinato di Yahidne, vicino a Chernihiv. La città è stata liberata martedì

La gente ammassata in uno scantinato di Yahidne, vicino a Chernihiv. La città è stata liberata martedì - Reuters

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È rimasta sotto un implacabile assedio per settimane, tutt’attorno i villaggi della sua periferia cadevano uno dopo l’altro nelle mani delle truppe russe, ma a Chernihiv i soldati di Mosca non sono mai riusciti a entrare.

Così, su questa città di 280mila abitanti, la metà fuggiti nei primi giorni delle ostilità, la guerra si è abbattuta, ostinata, dal cielo. Martellanti i bombardamenti che hanno colpito edifici residenziali, un cinema, lo stadio, un hotel, una biblioteca, crateri e macerie disseminati ovunque. Chernihiv, situata sulle rive del fiume Desna nell’Ucraina settentrionale, è stata uno dei primi obiettivi delle truppe di Mosca entrate dalla Bielorussia. Da qui la capitale, a soli 144 km, pareva a portata di mano.

«Chernihiv e Sumy hanno salvato l’Ucraina dall’essere fatta a pezzi. E Kiev così è stata risparmiata», ha detto mercoledì Oleksiy Arestovych, consigliere del presidente, in visita in città. Con la ritirata dei russi, fra il 5 e 6 aprile la popolazione è riemersa dai rifugi, dov’era intrappolata senza elettricità, gas, acqua corrente.

Sono uscite dal loro bunker anche le 104 persone, una quindicina i bambini, che avevano trovato riparo nelle stanze sotterranee attrezzate dal ventottenne Maksym Bohomaz, che prima del 24 febbraio con il suo socio stava per inaugurare una nuova caffetteria.

«Il giorno dell’invasione abbiamo radunato gli amici nel nostro locale. Nei sotterranei c’è un grande bunker, che era utilizzato come magazzino dai ristoranti della zona. Lo abbiamo trasformato in rifugio e abbiamo aperto un centro di aiuti».

All’inizio ci dormivano Maksym, la moglie e le figlie di 3 anni e 7 mesi, parenti, amici, ma con il passare dei giorni sono stati accolti civili rimasti senza casa, donne in gravidanza. «Due hanno partorito. Siamo riusciti a trasferirle in ospedale, per poi riportarle nel rifugio con i neonati».

Di giorno, Maksym e gli altri volontari preparavano cibo per la popolazione e i militari. Poi uscivano per le consegne, rischiose, in giro per la città. «Da un giorno all’altro non trovavamo più palazzi che erano stati lì fino a qualche ora prima. Li scoprivamo sventrati o completamente distrutti.

Consegnavamo quotidianamente cibo anche ai soldati di un check-point. Un mattino al nostro arrivo il posto militare non c’era più, spazzato via, solo i resti dei missili caduti». Poi racconta cosa è accaduto a una delle famiglie del rifugio. «La loro casa è stata bombardata mentre si trovavano all’interno, non so davvero come siano sopravvissuti. Quando siamo andati a prenderli, ho visto il cratere della bomba, 5 metri di profondità, 10 di diametro, un buco enorme».

Anche Dasha Brednyakova, una ragazza di 29 anni, durante l’assedio ha cercato di fare la sua parte. Lavorava al “Pasta basta”, un ristorante della città. «Insieme ad altri locali, abbiamo preparato cibo per la popolazione e le truppe. La gente chiedeva aiuto, noi avevamo le provviste. E cucinare tutti insieme faceva meno paura», ci racconta al telefono.

«Impacchettati i pasti, uscivamo per la distribuzione. Le strade erano spaventose, non sapevamo mai cosa aspettarci. Un giorno mi trovavo all’aperto, quando ho visto con i miei occhi la traiettoria di un missile. Ho assistito al momento esatto in cui ha centrato un edificio, che ha preso fuoco. È stato terribile. Ma ogni giorno c’erano abitazioni e automobili in fiamme, tanto fumo, sopra di noi razzi e aerei in movimento. Ora non riesco più a riconoscere la mia città, le autorità dicono che è distrutta al 70 per cento».

Il confine bielorusso dista da lì solo 40 chilometri. Oltre quella frontiera, nei giorni scorsi, hanno ripiegato le truppe di Mosca. «Ancora non ci crediamo che se ne siano andati», ammette alla fine del racconto. «Non riusciamo a crederci, a fidarci del fatto che questa sia davvero la fine della guerra per la nostra città».

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