Il Daesh «colpevole» della lotta tra clan dei taleban
lunedì 19 settembre 2022

Il 14 luglio, il corpo straziato del mullah Sardar Wali Saqib è stato trovato nella casa dove abitava a Kabul. L’omicidio ha inaugurato una raffica di misteriosi attacchi, in apparenza scollegati. Il 31 luglio, un drone Usa ha ucciso Ayman al-Zawahiri. Il capo di al-Qaeda viveva in un appartamento dell’elegante quartiere Shirpur della capitale di proprietà del potente ministro degli Interni, Sirajuddin Haqqani. L’11 agosto successivo è toccato a Rahimullah Haqqani, vittima di un attentato kamikaze nel centro per imam di Kabul. Sei giorni dopo, è stata la volta di un altro leader religioso, Mullah Amir Mohammad Kabuli. Il 2 settembre, stavolta ad Herat, è stato dilaniato da una bomba il noto mullah, Mujib Rahman Ansari.

Tutti i delitti sono stati attribuiti al Daesh-k, il braccio afghano del Daesh, nemico giurato dei taleban. E spesso il gruppo jihadista stesso ha rivendicato le azioni. Eppure, mettendo in fila nomi e circostanze qualcosa anche nella ricostruzione ufficiale sembra non tornare. Un dato accomuna gli uccisi. Si tratta o di uomini provenienti dalla scuola Hanafi – Rahimullah Haqqani, Amir Mohammed Kabuli, Mujib Rahman Ansari – o a quella rivale, la Salafi, come Sardar Wali Saqib. I due istituti di formazione islamica divergono per l’interpretazione del Corano. Il conflitto che si consuma a Kabul, però, è tutt’altro che teologico. Alla scuola Hanafi è legato il clan Haqqani, la fazione filo-pachistana del movimento taleban, guidata appunto da Sirajuddin. Con un’ascesa vertiginosa al vertice, quest’ultimo ha scalzato il moderato Abdul Ghani Baradar, tanto da apparire, nei primi mesi dell’Emirato, più autorevole dell’emiro, Hibatullah Akhundzada. Da gennaio, però, il leader ufficiale – proveniente dalle fila dei fondatori dei taleban, la cosiddetta «fazione di Kandahar» – ha dato il via alla battaglia per il potere. Dietro i decreti più restrittivi – dalle restrizioni alla libertà di movimento all’obbligo di coprirsi il volto per le donne – c’è la sua mano. Soprattutto Hibatullah – come confermano fonti ben informate – è l’artefice del divieto di istruzione femminile dopo la sesta classe. Inutile ogni intento di fargli cambiare idea da parte di autorevoli mullah, inclusi i defunti Rahimullah, Kabuli e Rahman Ansari.

Come pure è stato vano lo sforzo di Sirajjudin di fargli ammorbidire il discorso pronunciato il primo luglio a Kandahar, di fronte alla “loya jirga”, assemblea dei capi tribali. Quella è stata la sua prima apparizione pubblica, dopo un anno d’ombra, tanto che alcuni lo davano per morto. Poco dopo sono iniziati gli omicidi che suggerirebbero uno scontro tra fazioni taleban e, dunque, tra Sirajjudin e Hibatullah. In quest’ottica, la stessa morte di Zawahiri si configurerebbe come un “colpo basso” al padrone di casa. Monolitico all’esterno, all’interno del movimento si agiterebbero scosse telluriche. Una minaccia forse più pericolosa per la sopravvivenza dell’Emirato della resistenza organizzata nel Panshir da Ahmad Massoud che proprio in questi giorni cerca di unificare la diaspora.

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