sabato 9 maggio 2020
Mentre l’economia di Riad è in panne per il crollo del prezzo del petrolio, gli Emirati Arabi conquistano spazi di manovra in Yemen e Libia. E si profila una «nuova relazione» tra Usa e Teheran
Tamponi sui pazienti in auto all'ospedale Diriyah di Riad

Tamponi sui pazienti in auto all'ospedale Diriyah di Riad - Ansa

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Il Covid-19 sta ridisegnando il Golfo, sconvolgendone equilibri e visioni per il futuro tanto quanto un conflitto. Finora, in Arabia Saudita, capofila politico ed economico dei Paesi arabi a maggioranza islamica sunnita, l’epidemia ha interessato “poco” più di 33mila sudditi su di una popolazione di 33 milioni circa, ma la preoccupazione è alta: il contagio è in aumento. Lo stop ai pellegrinaggi alla Mecca ha scongiurato scenari sanitari apocalittici, in un periodo dell’anno islamico – il mese di Ramadan – in cui milioni di credenti sono soliti intraprendere la Umrah, il pellegrinaggio “minore” (così chiamato per distinguerlo dall’Hajj, il “maggiore”, ndr). Si pensa dunque di estendere il blocco a tutto l’anno.
I danni economici e politici provocati dal virus, però, potrebbero essere ancora più drammatici della malattia stessa, per un Paese dipendente dal petrolio, oro nero sempre meno luccicante. Il prezzo del barile, dopo un tuffo sotto zero, non dà segni di rimonta significativa. L’Arabia Saudita, il maggiore esportatore mondiale, è con le spalle al muro. Un esempio, fra mille: Sabic, gigante petrolchimico saudita controllato al 70 percento da Riad, ha annunciato perdite per 250 milioni di dollari nel primo trimestre 2020. In Borsa, la compagnia ha già perso 300 milioni di valore. Intanto, i lavoratori della filiera energetica saudita, all’80 per cento stranieri, stanno lasciando la nazione alla volta dei Paesi d’origine. Ora, un passo indietro di tre mesi: prima che la pandemia esplodesse, il piano di sviluppo “Vision 2030”, cavallo di battaglia del principe ereditario Mohammed bin Salman centrato su diversificazione economica e crescita del settore privato, andava, per così dire, al trotto.
Chiusi i rubinetti petroliferi, però, non solo la “Vision” si fa piuttosto miraggio, ma anche il carisma politico del regno nel Golfo è appannato. Eccone alcuni segnali. Scrive il quotidiano americano “Wall Street Journal”: gli Stati Uniti stanno ritirando quattro batterie di missili Patriot e decine di militari dispiegati in Arabia Saudita (schierati lo scorso autunno, a seguito di un attacco iraniano alle strutture petrolifere). E sempre questa settimana, i vertici militari israeliani hanno confermato: la Repubblica islamica sta riducendo le sue forze e chiudendo le basi in Siria.
C’è forse un nuovo inizio nelle relazioni fra Washington e Teheran, a discapito di Riad? Certo, lo stallone saudita è in affanno in tutte le competizioni geopolitiche, mentre altri puledri guadagnano terreno. In Yemen, gli Emirati lo hanno doppiato da tempo, rimanendo nella stessa squadra solo formalmente, ma di fatto correndo una corsa tutta personale, insieme ai ribelli separatisti del Sud. Anche in Libia si muovono in autonomia: secondo “al-Jazeera”, pochi giorni fa, il Sudan si è impegnato a inviare mercenari in aiuto del generale libico Khalifa Haftar, in cambio di aiuti finanziari messi sul tavolo da Dubai. La cui salute è buona, grazie a massicce dosi di diversificazione economica, assunte negli ultimi vent’anni, e di misure anti-virali efficaci (ad oggi, contagi poco oltre 16mila e diffusione in calo). Quanto al Qatar, dopo l’azione diplomatica fra taleban e governo centrale afghano (sfociata, a fine febbraio, in un accordo di pace), l’asse con Washington non è in discussione, nonostante il perdurare delle tensioni fra Doha e Riad. Il piccolo sultanato, la cui economia dipende più dal gas che dal petrolio, continua a inviare aiuti sanitari a Teheran, con cui amplia la cooperazione energetica.
Ed è sempre più vicino alla Repubblica islamica l’Oman: Muscat si offre di mediare fra Iran e sultanati sunniti del Golfo, in linea con la sua tradizionale vocazione negoziale, ma annuncia anche nuove rotte navali con il vicino sciita. Che segna un altro punto sullo scacchiere iracheno, con la nomina a premier dello sciita Mustafa al-Khadimi, capo dei servizi interni, gradito a Washington. Insomma, di questo passo, di quarantena nel Golfo ce ne sarà una sola: il lockdown politico della dinastia dei Saud.

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