giovedì 17 marzo 2011
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Incollati davanti agli schermi televisivi, gli abitanti di Tokyo guardano con stupore quanto succede a 250 chilometri più a Nord. Non solo perché lì ci sono pezzi martoriati del loro Paese, punti in uno sterminato campo di rovine che copre forse 10mila chilometri quadrati, ma perché qui si gioca anche il loro destino. Nelle fornaci nucleari di Fukushima 1 e 2 che tutto il mondo ormai conosce, si consuma il futuro il questo Paese. Un domani da dimenticare, ma che resta invece da esorcizzare con la quotidianità sempre meno convinta e da affrontare con le armi della tecnica e del cuore.Dove non basta, con il sacrificio. I 50 tecnici che prima sono rimasti ad fronteggiare il rischio di nuove esplosioni e radiazioni dopo che i 700 compagni erano stati allontanati dagli impianti impazziti e ieri sera sono tornati per tentare l’impossibile, sono la versione attuale di una tradizione antica. Mentre gli elicotteri che ieri dovevano scaricare tonnellate d’acqua sulle vasche di raffreddamento del combustibile atomico sono stati fermati già in volo, tenuti a bada dall’entità delle radiazioni, gli uomini, “i 50”, sono tornati protagonisti e, forse, eroi. Questo guardano i passanti di Tokyo, chi si ferma in un locale il tempo di un caffè, di uno spuntino, di un poco di calore in una metropoli resa gelida da un vento siberiano che altrove, su mezzo Giappone scarica neve e nuova miseria. Forse si fermano solo per un poco di calore umano, per condividere la propria solitudine e la propria paura silenziosa con la solitudine e la paura degli altri. Perché la lotta fallita della tecnica e delle macchine contro i reattori imbizzarriti e quella dei 50 cuori sincronizzati contro l’impensabile non sono argomento da salotto, reale o virtuale. Vero è che per una volta, da italiano, non si viene assalito dall’elenco dei calciatori del momento o dalle classifiche del campionato, ma nel silenzio clamoroso forse sarebbe stato meglio. Yukio Edano, il portavoce governativo rassicurante già nell’aspetto, è ormai diventato talmente popolare da essere quasi ignorato. Soprattutto da quando ha iniziato a portare in video le contraddizioni e le verità parziali di questa vicenda, sostenute da dibattiti ricchi di plastici tridimensionali, piantine diagrammi, grafici e rassicurazioni sempre più flebili. Un po’ come la ricaduta casuale delle radiazioni tra Fukushima e Tokyo: troppo qui, poco là, senza una ragione apparente, mischiando caso, scienza e interpretazioni esperte. Come i terremoti di magnitudine sei e rotti che da noi spianerebbero le città e qui lasciano i portalampade a pendere dai soffitti, qualche tegola spezzata al suolo, al massimo una strage di bottiglie nei supermercati.I giapponesi, guardano e non commentano e non si capisce se perché siano tutti d’accordo nell’accettare la verità ufficiale, nel digerire il destino avverso o nel disconoscere la dura realtà. L’apparizione dell’Imperatore Akihito – evento raro fuori da poche ricorrenze ufficiali – è stata importante, in qualche modo ugualmente dovuta e accettata, ma difficilmente ha cambiato l’atteggiamento dei giapponesi verso una catena di eventi che singolarmente avrebbero messo in ginocchio un continente, ma allineati qui, sulle strade della megalopoli, sembrano solo rafforzare la determinazione del Paese. Il Giappone non prova ancora a reagire, ma guarda con ammirazione ai suoi soldati che prima nel fango e ora nella neve portano in spalla anziani e ammalati; agli uomini della protezione civile che scavano e scavano, segnando poi con una X rossa le case sventrate visitate una per una. All’appello mancano ancora 20mila nomi che nessuno vuole semplicemente ricordare, ma chiede invece di associare a un volto, a una storia. La tv del “dopo-tutto”, in attesa di “qualcos’altro” è fatta così: spot sulle autorità e storie uniche di un dramma comune. Da ieri si sono riaffacciati programmi più leggeri: segnale della situazione in miglioramento mentre “i 50” marciano sul reattore armati di idranti oppure indicazione che la dura realtà ha bisogno di un digestivo?Tutti lavorano, mangiano, discutono, leggono davanti a uno schermo e a volte fatichi a capire se la realtà sia “al di qua”o “al di là”. Una che va cambiando per prepararsi al peggio, l’altra che cerca di risollevarsi dal dolore e dalla disperazione. Il Giappone è, come ha detto Roland Barthes, «civiltà dell’immagine», «impero dei segni». Insomma, bisogna vedere per credere prima ancora che per capire. E se tutti vedono e fingono di credere a quello che passa sugli schermi accesi, molti probabilmente credono a quelli spenti. Alle centinaia di televisori di dimensioni, spessore, tecnologie diverse ma tutti immancabilmente bui allineati nei templi della tecnologia, prima una psichedelia di suoni e di colori. Spenti dall’austerità energetica, inquietano più degli scaffali sempre meno forniti dei supermercati o delle code sempre più lunghe ai distributori di carburante.
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