mercoledì 23 febbraio 2022
I giudici di Osaka hanno bollato come «inumana» la Legge di protezione eugenetica. Furono 25mila i giapponesi sottoposti alla pratica eugenetica
Unna famiglia giapponese posa con gli abiti tradizionali

Unna famiglia giapponese posa con gli abiti tradizionali - Ansa

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«Inumana e discriminante»: così il giudice dell’Alta Corte di Osaka ha definito la “Legge di protezione eugenetica”, in vigore in Giappone dal 1948 al 1996. Lo ha scritto nella sentenza che ha cancellato quella del 2020 di un tribunale di prima istanza e ha riconosciuto le responsabilità del governo e l’illegalità di un provvedimento che, attraverso la sterilizzazione, ha privato le vittime della dignità e del diritto all’autodeterminazione garantiti dalla Costituzione. Sono tre le persone che avranno diritto a un risarcimento complessivo di 27,5 milioni di yen (211mila euro), la metà di quanto chiesto: una donna settantenne privata nel 1965 della capacità di procreare perché ritenuta portatrice di «malattia mentale ereditaria» sempre negata dalla famiglia, e una coppia di anziani coniugi con problemi uditivi.

Sarebbero 25mila, e di questi 16.500 sotto costrizione, i giapponesi sottoposti a una legge che ufficialmente aveva lo scopo di «prevenire la nascita di bambini con caratteri inferiori e proteggere la vita e la salute delle madri allo stesso tempo». Se inizialmente l’applicazione era limitata alle persone affette da un disturbo mentale ereditario, successivamente essa venne estesa anche ai portatori di disturbi non ereditari e ai malati di lebbra.

La sentenza di Osaka farà scuola, perché è la prima a vedere riconosciuto il diritto al risarcimento delle vittime di una pratica rimasta per decenni nell’ombra anche nella stessa società del Paese del Sol levante e riproposta all’attenzione dell’opinione pubblica nel 1994 da una donna disabile giapponese durante la Conferenza internazionale sulla Popolazione e lo Sviluppo tenutasi in Egitto sotto l’egida dell’Onu. L’obiettivo venne formalmente raggiunto due anni dopo con l’abrogazione nel 1996 di una legge che, aveva sottolineato allora un deputato del partito di governo, «poteva essere accettabile nel contesto dei giorni successivi alla guerra» ma che il parlamentare Takeo Kawamura, aveva indicato come «inconcepibile» al giorno d’oggi. Nel 2005 l’esecutivo di allora aveva riconosciuto il diritto al risarcimento per gli hanseniani sottoposti a sterilizzazione (il Giappone ha chiuso il suo ultimo lebbrosario, quello di Tamazenseien nel 1996), ma non per le altre categorie di cittadini a cui era stato imposto lo stesso trattamento per la loro “diversità”.

Nel 2018 una sessantenne, costretta alla sterilizzazione nel 1972 per una presenta disabilità mentale e una sua compagna settantenne per prime avevano chiesto al tribunale di Sendai il riconoscimento di danni per i diritti violati e per l’imposizione del trattamento. L’anno successivo, il tribunale aveva riconosciuto loro «piena ragione», confermando l’incostituzionalità della sterilizzazione forzata come conseguenza della politica di tipo eugenetico, ma nessun indennizzo. Altre cause, perlopiù collettive, sono pure finite con un nulla di fatto, nonostante nell’aprile 2019 il Parlamento abbia legiferato a favore di un indennizzo da parte dello Stato di 3,2 milioni di yen per ciascuna vittima riconosciuta, sollevando forti resistenze data l’esiguità e l’omogeneità del trattamento davanti a casi tutti e diversamente drammatici.

Sembra paradossale che i provvedimenti riparatori finora offerti e le deboli affermazioni di responsabilità sembrino in realtà accentuare la visibilità di un problema che molti avrebbero voluto fosse dimenticato e moltiplicare le reazioni, anche sotto forma legale. Come per altre questioni rimaste aperte nel dopoguerra, la vicenda delle vittime della sterilizzazione richiesta o imposta sembra evidenziare come in Giappone persista la difficoltà di riconoscere la presenza di aree di emarginazione rese "invisibili". Manifesta anche come l’affermazione di una giustizia formale, anche se sollecitata da gruppi e movimenti, a volte manchi l’obiettivo di portare alla piena soddisfazione di diritti e necessità.

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