sabato 22 ottobre 2016
L'attenzione del mondo si è spostata sulla crisi siriana. Ma nell'enclave palestinese la crisi umanitaria continua. E peggiora. "Siamo al 60% di disoccupazione. Nel silenzio, sta covando il peggio".
Gaza dimenticata
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"No, non è Aleppo: siamo noi"

“Qualche settimana fa hanno pubblicato una foto su Twitter. Il commento diceva: “Le macerie di Aleppo”. Tra i due palazzi distrutti, in basso, spuntava però una bandiera di Hamas. Era Gaza. Un errore. Capita. Sono riuscito a sorridere: siamo più o meno nella stessa situazione dei siriani. Ma noi palestinesi non andiamo più di moda”. Walid A. scrive veloce su Skype. “Ancora un 10% di batteria, poi ci risentiamo domani”. Nella Striscia la corrente alternata è “alternata” in un modo tutto suo: otto ore sì, otto ore no. Quando va bene. L’enclave ha un fabbisogno di 400 megawatt al giorno, ma l’unica centrale elettrica non basta. Quando funziona al meglio - raramente, perché si blocca e soprattutto perché, a causa dell’embargo israeliano, manca il combustibile per farla funzionare - ne produce 100. I palestinesi comprano altri 110 megawatt da Israele; 28 dell’Egitto, ma si rimane sempre sotto la soglia minima per un’esistenza decente. “Come facciamo? Voi lo chiamate sopravvivere".

Dieci anni, quattro "guerre"

Walid “sopravvive” da 19 anni a Gaza, ed è già sopravvissuto a un discreto numero di guerre. Si ricorda con chiarezza solo tre delle ultime quattro offensive (2008-2009-2012-2014) e si stupisce dello stupore altrui: “Vabbè: non usiamo il frigorifero, abbiamo scorte di pile, accendiamo candele”. E’ così da anni. “Ci siamo abituati”. Alla domanda inevitabile - le cose sono peggiorate da quando l’attenzione del mondo si è spostata sul conflitto in Siria e Iraq? - risponde con un “Mah, forse. Loro facevano quello che vogliono prima. Fanno quello che vogliono adesso”.

L'embargo israeliano

“Loro” sarebbero gli israeliani, che mantengono un blocco severo sull’enclave controllata dal gruppo fondamentalista Hamas. I valichi vengono aperti o chiusi con il contagocce. La popolazione dell’enclave ha raggiunto quota 1.800.000 persone - concentrate in 365 Km quadrati: la più alta densità abitativa del mondo. Quasi tutti (1.260.000) vivono con lo status di rifugiati negli otto campi gestiti dall’Unrwa (l’Agenzia Onu per i profughi palestinesi). E la situazione, in silenzio, lentamente, sta arrivando al punto critico. “Siamo al 60% di disoccupazione - spiega Khaled, giornalista a Gaza City -. Il problema più grosso riguarda la ricostruzione. Qui c’è un detto: con un sacchetto di cemento si creano 42 posti di lavoro. Il problema che il cemento non arriva”. Ne servono migliaia di tonnellate per rimettere in piedi la Striscia. Che resta quello che è: macerie.

Le autorità israeliane mantengono un controllo molto rigido sui materiali perché ritengono possano essere “dual use”: il cemento potrebbe essere utilizzato per costruire i tunnel di contrabbando; i prodotti metallici potrebbero essere impiegati per i razzi che partono verso il sud di Israele, terrorizzando i civili israeliani, che vivono in allerta costante . “Il risultato però è che non si costruisce più - sottolinea Khaled -. E quindi non si lavora più, visto che quella è la principale attività”.

L’emergenza acqua

L’altra emergenza riguarda l’acqua. “L’Onu ci ha avvisati: più del 90% dell’acqua della Striscia non è potabile. Toppo salata. La falda è sovra-sfruttata, i livelli sono scesi, quella del mare si è infiltrata. Non bastasse, è contaminata da una serie di piscine, le chiamiamo così, in cui si accumulano i liquami del sistema fognario, perché il sistema fognario non regge più. Noi non abbiamo i soldi per dissalare o purificare. Lo fanno gli israeliani: prendono l’acqua, la ripuliscono, la rivendono. Chi può la compra. Ma in pochi possono”.

L’economia dei tunnel

C’è poi il sistema dei tunnel. Negli anni i gazawi hanno creato una fitta rete di cunicoli sotterranei – 500, secondi fonti concordanti, strutturati: profondi, larghi, alcuni con sistema di aereazione, onguno con il proprio “gestore” -, soprattutto al Sud della Striscia, nell’area di Rafah, al confine con L’Egitto. Da questi tunnel (illegali ma su cui gli egiziani chiudono un occhio, anche se si può registrare una maggiore severità del governo al-Sisi rispetto a quello precedente di Morsi) transita ogni genere di merce. Passano però anche armi, munizioni e razzi. Negli ultimi anni Israele ha intensificato i raid su questa rete sotterranea, rendendo impraticabili molti passaggi. La mancanza di materiale per la loro manutenzione e ricostruzione fa il resto. Le gallerie crollano. Nella sola giornata di martedì, due miliziani di 22 anni sono morti mentre scavavano nella zona di Khan Yunis. Hamas un po’ conferma (per denunciare) e un po’ smentisce (per rassicurare).

Un silenzio rischioso

“L’unico fatto certo è che i tunnel funzionano sempre meno - conclude Khaled - e che il volume delle merci contrabbandate è diminuito, privando la popolazione palestinese di una delle principali fonti di sostentamento. Non so fino a quando reggerà questo strano equilibrio tra la (loro) capacità di oppressione e la (nostra) capacità di resistenza. Ho la netta sensazione che stiamo arrivando al punto di rottura. Il mondo è distratto da altre crisi, e qui stiamo rischiando il peggio”.

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