martedì 27 agosto 2013
​Un anno e mezzo dopo lo tsunami in Giappone le fughe radioattive continuano. Ultime in ordine di tempo perdite di acqua contaminata. Nei sobborghi, tutto è come allora: case sventrate e carcasse d’auto abbandonate. Eppure c’è chi rimane e resiste.
Il rebus energetico
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Venendo da Fukushima, Minamisoma è l’ultima città abitata che si incontra prima di entrare nella zona contaminata dalle radiazioni che continuano a fuoriuscire dalla centrale nucleare Numero Uno. Appena una settimana fa, la perdita di 300 tonnellate di acqua fortemente radioattiva da un serbatoio. L’acqua è finita nel terreno formando pozze in superficie.È l’ultimo incidente, in ordine di tempo, in un’area ancora pesantemente segnata dagli effetti devastanti dello tsunami. Segnali che cominciano a farsi evidenti immediatamente dopo le ultime abitazioni della cittadina: case sventrate, carcasse di macchine abbandonate, pile di elettrodomestici, ferraglie e calcinacci sono disseminati nei campi circostanti. Nelle strade semideserte i semafori funzionano ancora: ai residenti è proibito restare dopo il tramonto, ma durante il giorno possono visitare le loro proprietà. Gruppi di volontari si alternano per aiutare i contadini della zona a tenere puliti i giardini, altrimenti infestati dalle erbacce. Lavoro inutile dal punto di vista pratico, dato che, almeno a questa generazione, difficilmente sarà permesso di rientrare nelle proprie dimore. «Il nostro è più un lavoro di sostegno psicologico offerto soprattutto per gli anziani, più legati al territorio, affinché non si sentano abbandonati» spiega un coordinatore del Centro di volontariato per la ricostruzione di Minamisoma. Molti volontari raccontano che, entrando nelle case, trovano ancora i giornali di quel terribile 11 marzo 2011.Avvicinandosi alla centrale nucleare, la rassegnazione della popolazione evacuata viene misurata proporzionalmente con l’evidente stato di abbandono della zona: linee ferroviarie ricoperte di vegetazione, semafori che non funzionano, asfalto degradato. Aumenta anche il silenzio, interrotto ogni tanto dal grugnito di qualche maiale inselvatichito o dal muggito di una mucca. «Nutrendosi di tuberi o di erba, il loro corpo si è contaminato di isotopi radioattivi; non potendo essere di alcuna utilità alimentare per l’uomo, vengono lasciati liberi di scorrazzare per la zona» dice un contadino di Minamisoma. A Tomioka, la cittadina a soli tre chilometri dalla centrale, tutto è rimasto esattamente come il giorno in cui lo tsunami ha travolto la vita dei suoi abitanti: bottiglie di birra aperte sui tavoli dei ristorantini, orologi fermi all’ora della tragedia, camere da letto con i materassi, abitazioni sventrate da auto in balìa dell’ondata di piena.Ciò che più sconcerta, però, non è la distruzione perpetrata dagli elementi naturali, ma l’esatto contrario. Mano a mano ci si allontana dalla costa, i villaggi sono rimasti indenni sia dallo tsunami che dal terremoto. Una fortuna, si potrebbe pensare. Ed invece no: le correnti atmosferiche, incanalandosi nelle strette vallate, hanno trascinato per decine di chilometri verso l’interno la nube radioattiva sprigionatasi dai tre reattori della centrale di Fukushima contaminando intere regioni. Capita, quindi, di passare in villaggi come Iitate le cui case, perfettamente intatte, sono state abbandonate trasformando quella che era una meta turistica da cartolina, famosa per le mandrie di mucche al pascolo, in un paese fantasma.Per cercare di decontaminare la zona, le ruspe raschiano il suolo circostante per una profondità di venti centimetri portando la terra dragata in appositi siti nella speranza di eliminare le scorie radioattive di Cesio 137 in essa contenute. Un lavoro immane che è già stato portato a termine nei cortili dei plessi scolastici attorno alla città di Fukushima. «Qui ci si è limitati a depositare il terreno superficiale in strati profondi del sottosuolo ricoprendolo poi con uno strato di terra incontaminata» afferma un abitante del luogo. Nel frattempo, decine di migliaia di persone sono state trasferite nelle cosiddette case temporanee. Più che case, sono dei container in cui ogni famiglia deve adattarsi a vivere in stanze di pochi metri quadrati a stretto contatto con i vicini. E, cosa più demoralizzante, tutti sanno che non saranno «temporanee». Mentre gli anziani si sono rassegnati a passare gli ultimi anni della loro vita in questa precarietà, i giovani, sapendo che le aree off limits di Fukushima resteranno tali per decenni, appena possibile cercano di emigrare.Ma anche chi è potuto rimanere nei propri villaggi ha problemi di sopravvivenza, in particolare i contadini. La paura (giustificata, ma anche spesso immotivata) nel consumare i prodotti della terra provenienti da Fukushima, ha portato l’agricoltura della provincia ad una crisi senza precedenti con perdite di fatturato tra il 20 ed il 50 per cento rispetto agli anni precedenti il 2011.Molti si sono arresi e se ne sono andati di propria volontà; chi si ostina a rimanere deve fare i conti anche con l’ostilità della comunità verso la protesta antinucleare. Sembra un paradosso ma, nonostante quello che è accaduto a Fukushima, il movimento antinucleare non ha molto seguito tra la società contadina locale, timorosa che alzare la voce possa indurre l’opinione pubblica a pensare che il problema contaminazione sia più grave di quanto si dica, portando quindi a un’ulteriore contrazione dei consumi. Ne sanno qualcosa Shigeki Oota e sua moglie Iwasa Miko, che nel villaggio di Hippo si dedicano alla produzione di miso, la salsa usata per condire le verdure. Nonostante Hippo si trovi nella provincia di Miyagi, il fall out radioattivo è giunto fin qui. «Dopo l’incidente, la comunità si è divisa in due – spiega Iwasa Miko – e chi avrebbe voluto lottare contro il nucleare si è trovato a combattere contro la parte più conservatrice, rappresentata dai contadini del luogo, che preferivano evitare di sollevare il problema contaminazione». Alla fine molti hanno abbandonato la valle, ma non gli Oota che, con i loro quattro figli, hanno continuato a esprimere le loro idee sino a incontrare una certa solidarietà anche tra i più esitanti. Oggi ad Hippo si è riusciti ad installare un contatore Geiger e, come in molte altre parti della provincia di Fukushima, a ogni raccolto un campione di prodotto viene esaminato per calcolare la quantità di cesio 137.La stessa diffidenza verso il movimento antinucleare l’ha trovata Sachiko Goto, che nella sua fattoria, a pochi chilometri dalla città di Fukushima, coltiva pesche e mele con metodi biologici. Sachiko, fortemente impegnata nel movimento antinucleare sin dalla metà degli anni Ottanta, imputa l’indifferenza della popolazione al fatto che «la centrale di Fukushima ha impiegato migliaia di persone durante la sua costruzione e il suo funzionamento; anche oggi, con la fase di contenimento, offre lavoro a un numero elevato di locali». A differenza degli altri contadini del luogo, i Goto hanno limitato le perdite grazie alla loro scelta di mercato: vendendo principalmente a privati, bypassando le grandi catene alimentari e le cooperative, sono riusciti a creare un legame di fiducia con i loro clienti. «Rispetto agli anni scorsi, abbiamo perso il 30 per cento dei clienti; molti di loro hanno diminuito i quantitativi richiesti perché hanno preferito non fare mangiare la nostra frutta ai loro bambini. Li capisco».La Tepco, la compagnia elettrica che gestisce la centrale di Fukushima, ha risarcito per il 50 per cento le perdite dei contadini dell’area, a differenza di quanto successo a Koryama, dove Yasuhiko Niida gestisce la Kimpou, una delle pochissime aziende in Giappone che fabbrica sake con metodi biologici utilizzando esclusivamente riso come materia prima. «Nel 2011 la nostra azienda familiare ha compiuto 300 anni. Avevamo previsto festeggiamenti e grandi progetti per il futuro: a causa dell’incidente di Fukushima, abbiamo rischiato di chiudere» spiega Niida. Alla fine, però, la Kinpou è sopravvissuta alla crisi e, nonostante la flessione del 20 per cento delle vendite, non ha licenziato nessuno dei venti dipendenti. Dopo aver traghettato la sua azienda al di fuori dalle acque torbide della crisi, Yasuhiko Niida si è posto un secondo obiettivo: «Entro il 2025, anno del mio sessantesimo compleanno, convincere tutti i contadini della zona a coltivare riso completamente biologico».Oota, Goto e Yasuhiko: tre famiglie che sono riuscite a sopravvivere all’insidia delle radiazioni. Come loro ve ne sono molte altre in Giappone. Rappresentano la speranza, il futuro ed il modello per le prossime generazioni.
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