mercoledì 24 marzo 2021
Il presidente Erdogan, sempre più in difficoltà, medita modifiche alla legge elettorale per non sparire dalla scena politica al voto del 2023 e gratifica la sua base elettorale “estrema”
Il presidente turco Recep Tayyp Erdogan

Il presidente turco Recep Tayyp Erdogan - Reuters

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Si chiamava Naci Agbal, e la sua unica colpa è stata quella di innalzare di 200 punti base il costo del denaro per cercare di tamponare l’inflazione che galoppava tra il 15 e il 16%. Ma a Recep Tayyp Erdogan, che lo aveva nominato solo nel novembre scorso, la mossa del governatore della Banca centrale turca non è piaciuta, e Agbal, già ministro delle Finanze dal 2015 al 2018, è stato rimosso, terzo governatore della Cbrt a cadere in meno di due anni.
Grande malata fra le valute dei Paesi emergenti, la lira turca galleggia di nuovo mal difesa e in preda dei venti nel vasto mare degli scambi internazionali: negli ultimi dieci anni ha lasciato sul terreno l’80% del proprio valore, i prezzi al consumo dei generi di prima necessità sono più che raddoppiati e le riserve valutarie turche sembrano ormai prossime allo zero. Risultato: la politica monetaria imposta da Erdogan – gli analisti la chiamano con costernata preoccupazione «Erdoganomics» – è miseramente fallita. Ma oltre a nominare un nuovo governatore, la reazione politica del Sultano è stata quella di stringere ulteriormente i lacci attorno alla società civile turca. Dapprima decidendo di uscire clamorosamente dalla Convenzione di Istanbul (quel trattato internazionale siglato nel 2011 proprio nella megalopoli turca che sanciva l’uguaglianza fra uomo e donna e presupponeva strumenti legalmente vincolanti per perseguire la violenza sulle donne e prevenire gli abusi domestici); quindi caldeggiando la richiesta del procuratore generale della Cassazione per la messa al bando dell’Hdp, il partito filo-curdo parente ideologicamente stretto dei greci di Syriza e degli spagnoli di Podemos, che con il suo 11,7% è la terza forza politica della Turchia; infine, sottraendo alla municipalità di Istanbul guidata dal Chp, il Partito popolare repubblicano di derivazione kemalista che sta all’opposizione in Parlamento la gestione di Gezi Park, lo storico luogo della protesta che nel 2013 infiammò Piazza Taksim e costò 11 morti, oltre 8 mila feriti e migliaia di arresti. In tutti e tre i casi il motivo è sempre lo stesso: blandire l’ala più conservatrice dell’elettorato turco, quello zoccolo duro anatolico, moderato e fortemente islamista racchiuso nell’Akp e che fino a poco tempo fa aveva garantito a Erdogan (grazie anche alla poderosa spinta della crescita basata essenzialmente sul boom edilizio e sulle grandi opere) il massimo del consenso. Un consenso che ora si mostra ampiamente eroso, tanto che pur sommando i voti dell’Akp con gli alleati dell’Mhp – il movimento nazionalista ultraconservatore e braccio politico dei Lupi Grigi – i due partiti non supererebbero il 45%. Colpa del Covid, del tracollo economico e delle speranze deluse, e anche dell’emorragia all’interno dello stesso Akp (nelle ultime elezioni era già precipitato dal 42% al 36%), che si va disperdendo in piccoli rivoli ribelli. C’è chi afferma che il vero arbitro della politica sia Devlet Bahçeli, leader del Mhp. Non siamo lontani dal vero.
Le elezioni del 2023 sono ancora lontane, ma assediato quotidianamente da comitati d’affari e da gruppuscoli antioccidentali Erdogan medita di metter mano alla legge elettorale, in modo da accogliere in una futura coalizione anche i piccoli rissosi partiti dell’estremismo islamista. Gli unici insieme ai Lupi Grigi che possono garantirgli il 51%. Anche se il prezzo, come d’uso, sarà quello di una sempre più risicata libertà.

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