Solita cosmesi di un’ennesima «rivoluzione» cubana
venerdì 16 aprile 2021

Questa scena l’abbiamo già vista tre anni fa. Quando l’Asamblea Nacional del Poder Popular designò l’allora cinquantasettenne – un ragazzo, se messo a confronto con la gerontocrazia degli ultraottantenni che hanno governato fino a oggi – Miguel Díaz-Canel quale successore di Raúl Castro e nuovo presidente di Cuba. Il rituale si ripete oggi, con la definitiva (definitiva?) uscita di scena del fratello del Líder Máximo, che formalmente fa l’ultimo passo indietro spogliandosi di ogni carica.
Ma fatalmente, da decenni avvezzi a un’ormai logora mascherata che contrabbanda quell’elaborata cosmesi istituzionale come un fatto rivoluzionario, si finisce per crederci assai poco. I barbudos della Sierra Maestra – il novantenne Raúl Modesto Castro Ruz non ne è che il tardo epigono – sono ancora lì al loro posto, e non basta certo la relativa giovinezza di Díaz-Canel e il suo dichiarato entusiasmo per la proprietà privata, la musica rock, la libertà di navigazione su Internet, l’appoggio obbligato al credo Lgbt a garantire a Cuba quel balzo definitivo nella modernità. È pur vero che dalla Costituzione del 1976 è stato espunto quel passo dell’articolo 5 che predicava «el avance hacia la sociedad comunista», limitando l’orizzonte ideologico alla «construcción del socialismo»; ma è vero anche che dietro alle spalle dell’hombre nuevo che da lunedì prossimo sarà a pieno titolo il timoniere ufficiale dell’isola caraibica giganteggia inesorabile (e come potrebbe essere altrimenti, dopo sessantadue anni?) la memoria epica della Revolución. Una memoria artificiale e artificiosa, visto che nessuno nella nomenklatura cubana al potere oggi può vantare (questione d’anagrafe, essenzialmente) di aver calcato i sentieri della Sierra quando rullava gloriosa la storia di Cuba. Nessuno, tranne Raúl. Che a scanso di equivoci si è affrettato a chiarire qualche anno fa: «Non sono qui per far tornare il capitalismo». Per questo si è portati a diffidare di una de-castrizzazione più annunciata che reale. Soprattutto perché non si è per nulla affievolita la secolare repressione nei confronti dei dissidenti, come dimostrano i recenti arresti nelle file del Movimento San Isidro. Era così ai tempi di Fidel, lo è stato dopo il cambio della guardia del 2016, continuerà ad esserlo con il nuovo presidente, nonostante le briglie sciolte ai cuentapropistas (i privati che si arrangiano da sé, senza lavorare per lo Stato), nonostante le sfilate di moda sul Malecón, nonostante l’invito pressante ai capitali stranieri dopo che i due grandi protettori-elemosinieri del regime – Mosca e l’etnocaudillo Hugo Chávez – sono usciti di scena. Davanti a sé l’ingegner Díaz-Canel ha un ragguardevole cumulo di problemi. Il rapporto con gli Stati Uniti, per cominciare: al disgelo promosso da Obama (grazie soprattutto alla fine intercessione diplomatica della Santa Sede) è seguita la ruvida chiusura di Donald Trump. Ma lo stesso Biden ha già frantumato più di un’illusione: «Cuba – ha detto a mezza bocca – non è nelle nostre priorità». Ma l’emergenza più pressante rimane l’inflazione, schizzata alle stelle complice il turismo azzoppato dal Covid e il conseguente impoverimento dei salari.
Che dire? Due suggestioni letterarie s’insinuano prepotenti, quanto scontate: il gattopardesco marchingegno politico al fine di non cambiare nulla fingendo di cambiare tutto e la lenta, lentissima agonia di un mondo già trapassato più ancora che passato, al cui confronto quell’estenuato autunno del patriarca raffigurato dal fraterno amico di Fidel “Gabo” García Márquez sembra quasi un istant-movie. Da oltre mezzo secolo un tempo immobile avvolge Cuba come un soccorrevole manto protettivo. Il futuro sembra lì, a portata di mano, ma c’è ancora la sagoma ingombrante di un novantenne a far da scudo, cui pure va riconosciuta un’insospettata lungimiranza nel traghettare Cuba verso approdi nuovi. «Il primo della stirpe è legato ad un albero e l’ultimo se lo stanno mangiando le formiche», scrive García Márquez in Cent’anni di solitudine. E probabilmente lo stesso Raúl se n’è già reso conto.

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