mercoledì 8 giugno 2011
Una giornata a bordo di un "Lince" sulla "route 515", tra sabbia, sassi e imboscate. Scorta a un convoglio di camion nell’Afghanistan Occidentale in "territorio Comanche", 80 chilometri di deserto in 10 ore: missione compiuta.
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Attraversiamo piccoli centri abitati, le case di fango secco e paglia, dai tetti a cupola, che sembrano galleggiare sulla sabbia. Non c’è un albero, né un uomo, nemmeno una donna. Ma tanti bambini vestiti di stracci, polvere e scabbia, che pascolano capre. Al nostro passaggio salutano e non sempre in modo augurale. Poi solo sassi e sabbia, nel deserto di Pusht-i-Rud, sulla pista che da Farah corre sul profilo di sud-est, verso Kandahar.Schiacciati come un sandwich dentro un giubbotto antiproiettile, elmetto che stringe la testa, con la schiena fissata al sedile da quattro cinture di sicurezza, vediamo l’Afghanistan occidentale che scorre dietro il finestrino blindato di un corazzato "Lince". Settemila chilogrammi di blindatura a prova di razzi "Rpg" e mine anticarro, un po’ meno di fronte alle potenti cariche esplosive che, sempre più spesso, gli "insorti" nascondono sulla strada.Siamo in pattuglia di scorta e il nostro cielo afghano è un grande oblò che si spalanca sopra la testa, dove sbucano due gambe nei pantaloni mimetici dell’esercito, la metà inferiore di Daniele il "rallista", il militare che manovra la mitragliatrice pesante "Browning". Di Antonello, che sta seduto alla nostra sinistra, scorgiamo appena il profilo del volto, semicoperto dalla "Minimi", mitragliatrice calibro 5,56. Dell’autista, Tiziano, e del caposquadra del Primo plotone "Falchi" della "Folgore", Giovanni, non scorgiamo che spicchi di schiena, per via di tutto quello che c’è appeso in cabina. Compreso quell’ingombrante bazooka anticarro "Panzerfaust" nero, con la testa esplosiva innestata. Su un "Lince", così bardati, non c’è spazio per muoversi più in là di qualche centimetro. Una tortura, se si aggiunge il caldo torrido che all’esterno infierisce con i suoi 45 gradi centigradi e i cupi pensieri che si materializzano nella testa.Dopo avere lasciato la base interforze Nato "Isaf" di Farah, viaggiamo sulla pista della "route 515". Missione di routine: scorta a camion civili diretti a rifornire una base militare italiana più avanzata. Siamo aggregati al nucleo del genio militare Ottavo reggimento paracadutisti di Legnago e alla Quarta compagnia "Falchi", 187° reggimento paracadutisti "Folgore" di Livorno. Sedici corazzati "Lince", dieci camion.Ad aprire la colonna c’è un "angelo protettore" a cui affidare la propria vita, per ogni palmo di strada che viene solcato: un gigante di meccanica chiamato "Bufalo" che con i suoi strumenti, e il suo braccio estendibile, interviene ogni volta che gli uomini del genio individuano una minaccia. Come un "Ied" (Improvised explosive devices), un ordigno improvvisato. L’arma preferita dagli insorti, sulla prima linea di questa maledetta guerra asimmetrica che ogni giorno, in Afghanistan, si porta via vite umane di tutte le età.«Per domani non ci sono warning attivi», minacce particolari. Eravamo andati a dormire con queste parole, quasi rassicuranti, del capitano dei paracadutisti della "Folgore", pronunciate durante il briefing di pianificazione della missione odierna, quando, lungo il tragitto, la radio ci riporta alla realtà: «Warning imboscata». In un punto preciso vengono segnalati trenta insurgent. L’avviso ci fa cambiare tracciato, ma non farà passare la paura.«In caso di attacco – erano le parole del capitano ai suoi uomini – fategli abbassare la testa». Ma in caso di un «attacco più complesso», prima l’uso di un "Ied", seguito da un attacco con armi leggere, la risposta dovrà essere «fuoco di saturazione»: impedire al nemico ogni mossa e costringerlo alla fuga.Sono passate ore da quando abbiamo lasciato la "Base operativa avanzata" italiana (Fob: Forward operative base), "El Alamein" di Farah, comandata dal colonnello Badialetti del 187° Reggimento "Folgore" di Livorno, ma i nostri occhi non smettono di scrutare l’orizzonte, pensando ai ripetuti "warning". Bucano il vetro blindato, setacciano palmo a palmo la cima dei picchi che ci stanno attorno a una distanza di cinquecento metri, forse meno. E mentre osserviamo ogni ombra che sembra muoversi furtiva, la mente scava nel passato. Quando i sovietici erano i signori dell’Afghanistan. E di quel giorno che con un gruppo di mujiaedin eravamo appostati in un anfratto di montagna, mentre i guerriglieri preparavano la loro imboscata contro il convoglio di sciuravi, i russi.L’incontro con l’altra colonna italiana avviene alle porte del villaggio di Kourmalek, con i bambini che scrutano curiosi e gli adulti che preferiscono restare invisibili. Scambiati i camion pieni con quelli vuoti, facciamo rientro a Farah. Ma tra quanto tempo ancora?L’immagine dell’imboscata è un pensiero che proprio non riusciamo a smuovere, come la minaccia degli "Ied", che ci accompagna fin dall’inizio della missione con i militari italiani di servizio in prima linea. E intanto, come per un istinto primordiale di pura sopravvivenza, ci accorgiamo che il corpo cerca di comprimersi, in un tentativo di ridurre ogni sua vulnerabilità ai colpi d’arma da fuoco o agli effetti di una bomba. Volgiamo lo sguardo ai militari che stanno con noi, che fanno il loro lavoro quotidiano, che rischiano la vita, ma non riusciamo a chiedere nulla: pur non volendo aspettarci un’imboscata, il "colpo" potrebbe arrivare in qualsiasi momento, quando si è in "zona combat". Ed è verso questa fatalità che bisogna offrire tutta la propria concentrazione.Il "territorio Comanche" si spalanca non appena si varca la linea d’ombra di ogni base "Isaf", la missione Nato. Come a Farah dove sventola il Tricolore italiano. Dove cinquecento soldati italiani, e altrettanti americani, masticano sabbia, dormono su brande sotto le tende, patiscono un caldo impossibile, accanto all’unico cemento armato di cui proprio non possono fare a meno: i bunker per proteggersi da eventuali attacchi degli insorti con i mortai.In Afghanistan ogni minaccia è un fantasma che ti segue e ti perseguita, dappertutto.La "route 515" corre ben dentro a quel "territorio Comanche" dove l’attività degli insorti, i taleban, da qualche tempo si sta facendo più aggressiva. Regioni che fino a non molto tempo fa erano considerate relativamente tranquille, come quella di Herat, 180 chilometri più a nord di Farah, oggi subiscono una fase evolutiva del livello offensivo. Un segno è stato il mortale attacco suicida di fine maggio contro il "Prt" di Herat, gestito dagli italiani.Oggi è andata bene, la missione è terminata. Siamo tornati tutti a Farah. Anche se ci sono volute dieci ore per fare 80 chilometri di pista, tra andata e ritorno. Dimenticandoci quante volte il "Bufalo" ci ha costretti allo stop per controllare se sotto una pietra c’era uno "Ied", intanto che gli occhi di ognuno scrutavano il proprio orizzonte aspettandosi un’imboscata che, per fortuna, oggi non c’è stata.
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