lunedì 22 luglio 2013
​A fianco dei ribelli dell’Adf, che operano nella regione orientale contro i militari di Kinshasa, è stata segnalata la presenza di cellule legate al salafismo di matrice saudita. Si tratta di miliziani provenienti da Mali, Ciad e Sudan. Già 65mila i profughi rifugiati in Uganda.
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Il jihadismo non si era mai spinto così in basso, nel cuore dell’Africa, ad una latitudine prossima, se non inferiore all’Equatore. Infatti, nel settore orientale della Repubblica democratica del Congo, è stata segnalata in questi giorni la presenza di mercenari libici, maliani, sudanesi e ciadiani, a fianco delle Allied Democratic Forces (Adf). Si tratta di una formazione armata ugandese, in passato finanziata dal governo islamico sudanese, che proprio nell’ex Zaire ha allestito da tempo le proprie basi operative. Ebbene, fonti diplomatiche accreditate a Kampala, che chiedono l’anonimato, ritengono che proprio questi ribelli dell’Adf, attualmente impegnati in cruenti combattimenti nel Nord Kiwu contro l’esercito regolare congolese, abbiano ricevuto aiuto da alcune cellule eversive legate al salafismo di matrice saudita. In effetti, vi sono delle testimonianze dirette e alquanto allarmanti di rifugiati congolesi che hanno trovato riparo nel distretto occidentale di Bundibugyo, in Uganda. Alcuni di loro dicono che a combattere a fianco delle Adf, nell’ex Zaire, ci sono proprio loro, uomini armati che parlano arabo e invocano la guerra santa. Lo scenario è quello delle montagne del Ruwenzori, le mitiche Montagne della Luna, una catena montuosa al confine tra Congo e Uganda che, nell’immaginario ancestrale delle popolazioni autoctone, nasconde molti segreti. E forse questo è l’ultimo, anche se le dinamiche interne all’Adf sono ancora misteriose. Sta di fatto che la tensione è alle stelle se si considera che, secondo il censimento operato dalla Croce Rossa ugandese, dal 15 luglio scorso circa 65mila i profughi hanno trovato riparo nelle piccole scuole rurali di Bubandi, Karela, Isonga e Kisaru nella subcontea di Bubandi. Tutta gente, soprattutto donne, vecchi e bambini, che vivono in condizioni grande precarietà, soprattutto per la mancanza di acqua potabile, cibo e soprattutto tende. Sono in molti a chiedersi quale possa essere l’effettiva provenienza di questi ribelli della Mezzaluna che invocano, combattendo, a sproposito il nome di Dio, «Allah u-akbar». In effetti, all’interno dell’Adf, già in passato, era evidente la matrice islamica, non foss’altro perché il suo ispiratore storico è stato un certo Jamil Mukulu legato alla setta musulmana dei Tabliq ugandesi. Ma ultimamente, secondo i racconti dei profughi congolesi, sarebbero giunti dal Nord soldati di ventura incapaci di comunicare con la gente. A spiegarlo è Jean Paul, un giovane profugo che ha colto, nella sua disarmante semplicità, un particolare non trascurabile: «Non parlano in luganda, idioma tradizionale dei ribelli ugandesi e soprattutto non conoscono lo swahili che è la lingua franca dei militari. Si esprimono solo in arabo». Alcune fonti della società civile congolese, presenti nella diaspora ugandese, ritengono che questi jihadisti provengano dalla Repubblica Centrafricana. In sostanza si tratterebbe di alcuni dei ribelli di fede islamica che recentemente hanno combattuto nei ranghi della coalizione Séléka, quella che ha rovesciato l’ex presidente centrafricano François Bozizé. Nel frattempo, la situazione è sempre critica nella città congolese di Goma, capoluogo del Nord Kivu, sotto la costante minaccia dei ribelli filo ruandesi del movimento M23 i quali potrebbero riprendere, da un momento all’altro, le ostilità contro il governo di Kinshasa. La presenza della Monusco, braccio operativo di peacekeeping dell’Onu nella gestione della crisi, non basta a rassicurare la popolazione che teme rappresaglie da parte degli insorti. Per non parlare dei ribelli nord ugandesi del Lord’s Resistance Army (Lra) che fanno la spola costantemente tra Congo, Repubblica Centrafricana e Sudan, rappresentando un fattore di grande instabilità per l’ex Zaire. Intanto Ruanda e Uganda danno l’impressione di cercare un pretesto, prima o poi, per occupare il territorio congolese, ricco non solo di preziosi minerali, ma anche di fonti energetiche. E forse mai come oggi occorre rafforzare l’unità nazionale della Repubblica democratica del Congo, come sostengono molti analisti regionali. A questo proposito, dal 6 all’11 luglio scorsi, un’ottantina di partiti dell’opposizione politica si sono riuniti nella capitale Kinshasa per riflettere sul futuro del Paese. I partecipanti si sono detti disponibili a partecipare ad un «dialogo nazionale inclusivo» più trasparente e partecipato, come unica via possibile per creare una vera «coesione nazionale» capace di garantire la stabilità in quei territori colpiti dalla violenza dei gruppi armati.
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