giovedì 7 febbraio 2013
​Centinaia di rifugiati e richiedenti asilo provenienti da Eritrea, Somalia, Nieria, Niger e Chad rischiano di essere rimandati con la forza nei Paesi d'origine da cui erano fuggiti e dove potrebbero subire persecuzioni. Don Zerai: evitare la deportazione.
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Dall'inferno delle carceri libiche, alla deportazione forzata in quei Paesi da cui erano scappati per fuggire guerre, dittature e persecuzioni.  ​«Oltre 1.200 rifugiati e migranti rischiano la deportazione forzata dalla Libia nei loro paesi d'origine». A lanciare l'allarme su quello che sta succedendo in Libia è don Mussie Zerai, direttore dell'Agenzia Habeshia.  Secondo quanto riferito dal sacerdote, centinaia di persone, detenute nei terribili centri di detenzione libici, rischiano di essere espulsi dal Paese nordafricano per essere rispediti nei Paesi di provenienza: circa 350 sono eritrei (in fuga dalla leva militare permanente imposta da Isaias Afeworki, ndr), gli altri sono etiopi, somali (fuggono da una guerra più che ventennale), nigeriani, nigerini e chadiani. Per il governo libico però non sono profughi ma «persone portatori di malattie e altri problemi». «Ovviamente si tratta di una motivazione assurda e chiaramente a sfondo razzista: è una caccia all'Africano - denuncia don Mussie -. Il governo Libico comunica di proteggere in questo modo i rifugiati e migranti, ma sono trattati peggio di bestie». Violenze, abusi e violazioni dei diritti dei profughi sono una drammatica quotidianità in Libia. Nei giorni scorsi gruppi di migranti sono stati deportati con la forza nel Sud della Libia, precisamente a Sebha e Barika dove sono arrivati dopo 12 ore di viaggio estenuante, stipati su camion come animali», denuncia il sacerdote. «Bisogna evitare a tutti costi la deportazione dei richiedenti asilo e migranti nei loro paesi d'origine, secondo la Convenzione di Ginevra del 1951», sottolinea don Zerai, chiedendo che le autorità libiche consentano all'Unhcr di visitare i campi di detenzione nel Sud del Paese, «affinché possa essere fatta una verifica delle reali condizioni delle persone ivi detenute. Assistenza adeguata e pieno rispetto della loro dignità umana».
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