giovedì 21 aprile 2011
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La generazione perduta d’Eritrea vive nelle strade pedonali di Neve Sha’anan, quartiere commerciale di Tel Aviv. Erano troppo piccoli per combattere quando c’era la guerra d’indipendenza dall’Etiopia nei primi anni Novanta e oggi sono esclusi da tutto. Vogliono riprendersi il proprio futuro e perciò hanno dato vita a un esodo silenzioso e costante dalla dittatura e dalla povertà.Due terzi degli eritrei in patria vivono infatti in miseria e, sotto il regime di ferro di Isaias Afeworki, l’ex colonia italiana è diventata il Paese che, rispetto alla popolazione ha il più alto numero di migranti al mondo. Su cinque milioni di abitanti, il 20% della popolazione del piccolo Stato, tutti tra i 20 e i 30 anni, vive all’estero. I più vengono dal sud, sono cristiani e per fuggire hanno attraversato deserti, conosciuto le prigioni libiche, sono stati rapiti e torturati dai beduini nel Sinai, e oggi sfidano la morte sulle carrette nel Mediterraneo. Muoiono ovunque gli eritrei, fino in Australia e nei deserti messicani, nell’indifferenza dell’Occidente. Ma la morte è per loro meglio di una vita da schiavi.I migranti africani finiti nella capitale israeliana per disperazione abitano i dintorni della stazione degli autobus. Quelli più fortunati, che trovano lavori occasionali e possono pagare un pasto e un affitto, dormono ammassati in tuguri. Si aiutano grazie al forte spirito comunitario. Gli altri si sdraiano sotto le stelle di Levinski Park, il giardino accanto alla stazione dei bus. E girano, come il giovane papà che tiene per mano la sua bambina sulla via profumata di spezie e costellata da botteghe e ristoranti africani. L’uomo e la piccola dormono dove capita, come unica compagnia hanno una bambola in una borsa di plastica. La piccola ha sei anni e una vistosa cicatrice sulla fronte. Lui ne ha trenta e la storia di una famiglia lacerata da raccontare.«Mia figlia – mi dice – si è ferita nel Sinai. Insieme alla mamma viaggiavano su una jeep dei trafficanti che le portava in Israele. Le aspettavo al confine, ma la jeep si è ribaltata. Mia moglie si è ferita gravemente, l’hanno presa i militari egiziani e non so dove sia finita. I trafficanti hanno caricato mia figlia su un’auto e me l’hanno consegnata ferita alla testa. Abbiamo attraversato il confine, stiamo aspettando che mia moglie chiami, non so se e quando arriverà. Ho finito i soldi, la piccola dovrebbe andare a scuola, io a cercare un lavoro. Ma non posso lasciarla sola e non ho cibo da darle. Passiamo la notte ospiti di amici in stanze sovraffollate».Una situazione disperata comune a molti dei 20mila eritrei finiti in Israele dopo la chiusura delle coste libiche.«Qui – spiega Haile, 31 anni, a Tel Aviv da sei mesi – abbiamo libertà di movimento, ma non di lavorare. E dobbiamo risarcire le famiglie che ci hanno pagato viaggi e riscatti. Per costruirci un futuro vorremmo andarcene in Europa o in America, ma non possiamo farlo perché non c’è una legge sull’asilo in Israele e non abbiamo uno status ufficiale». Haile è il leader della neonata associazione dei rifugiati eritrei nello Stato ebraico. La sua è una delle storie della generazione perduta. Figlio di un generale dell’esercito, ha un fratello minore in Italia. Non hanno voluto seguire le orme paterne.«Con la scusa dello stato di guerra con l’Etiopia, la leva inizia a 18 anni e dura fino ai 45. Ma l’esercito viene usato come manodopera a basso costo per fare lavori forzati nelle miniere e nei cantieri. La paga è 10 dollari al mese, il regime ha sacrificato il nostro futuro per sopravvivere. Ci controlla ovunque con una rete di spie, ho ricevuto già due lettere di minacce da quando sono qui».Anche Kidane, 26 anni, ha passato un anno in Libia. «Studiavo all’università all’Asmara, nel 2007 la polizia mi ha preso di mira perché mi aveva sorpreso in un Internet cafè mentre a loro avviso partecipavo ad attività sediziose. Sono riuscito a scappare altrimenti finivo in un campo di lavoro e sparivo. Da noi non esistono tribunali». Prima meta, l’Etiopia. «Ho passato il confine di notte strisciando. Oltre 36 mila rifugiati eritrei vivono in cinque campi per rifugiati oltre frontiera. Poi ho pagato i Rashaida per portarmi in Libia attraverso il Sahara. Lì ho dato il denaro a un trafficante per attraversare il Mediterraneo, ma questo mi ha venduto alle guardie. Dalla prigione ho chiesto a mio padre di mandare 1500 dollari a un secondino. A ottobre 2010, lavorando in nero, ho messo insieme i soldi e sono partito per Israele. Mi è andata bene, non mi hanno rapito. Vi sono persone che per uscire dal carcere in Libia hanno venduto un rene ai trafficanti di organi. Ho visto le cicatrici».Fitnan ha 19 anni ed è stato invece rapito in Sudan nel 2009. Ha passato un anno da schiavo nel Sinai prima di venire liberato a febbraio. Faceva parte del gruppo dei 250 che abbiamo seguito grazie alle denunce di don Zerai.«Sono stato rapito vicino a Kassala dai Rashaida che mi hanno portato nel Sinai, a tre ore di auto da Rafah. Mi hanno venduto ai trafficanti di Abu Khalid. La mia famiglia è povera, non poteva pagare il riscatto. Ho lavorato come schiavo nel deserto per quasi un anno, mi tenevano incatenato in cantiere e pulivo la prigione. Chi non ha pagato, è stato venduto ad altri gruppi e ai trafficanti di organi».Alla fine Fitnan ha messo da parte la somma e quando è stato liberato, ha organizzato un incontro di preghiera per i sopravvissuti del Sinai. Ciascuno ha portato una candela per accendere una luce su questa tragedia dimenticata del deserto.
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