sabato 25 aprile 2020
La Repubblica Ceca è il Paese che ha retto meglio. In Ungheria pochi contagi e pochi tamponi, in Romania il «paziente zero» è giunto dall’Italia
La polizia militare in pattuglia nel centro della capitale ungherese Budapest

La polizia militare in pattuglia nel centro della capitale ungherese Budapest - Reuters

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Rimasta senza conferme la teoria rilanciata dalla rivista Science, che vorrebbe i Paesi ex-sovietici favoriti nella lotta al coronavirus da una capillare vaccinazione contro la tubercolosi, le ragioni di un contagio apparentemente limitato in Est Europa sono da ricercare, principalmente, nella reattive misure di “lockdown” approntate. La Repubblica Ceca è il Paese del blocco orientale che meglio ha retto l’urto della pandemia. A fare la differenza le misure draconiane di contenimento imposte dal governo Babis, che già al 12 marzo, con appena 116 morti e 2.000 contagi, dichiarava l’emergenza nazionale. I dati del ministero della Salute ceco conteggiano al momento 7.138 infettati, 210 decessi, 178.617 tamponi eseguiti e 390 persone in terapia intensiva. Numeri incoraggianti, che hanno convinto l’esecutivo ad allentare la morsa della quarantena: dal 20 aprile hanno cominciato a riaprire i mercati rionali e le piccole botteghe, l’11 maggio ripartiranno le terrazze di bar e ristoranti all’aperto, per ultimi, il 25 maggio, gli esercizi di ristorazione al chiuso, i centri commerciali e i teatri.

Confermato l’obbligo delle mascherine: la Repubblica Ceca, insieme alla Slovacchia, è stato il primo Paese in Europa a introdurlo. Diversa la situazione in Ungheria, dove il basso numero di contagiati, 2.100, e di vittime, 213, sembra influenzato dai pochi tamponi effettuati, appena 6 ogni 1.000 abitanti, cinque volte in meno che in Italia. Anche per questo il governo di Vik- tor Orbán non ha previsto alcuna “Fase 2”: l’allentamento delle misure di contenimento, attive dallo scorso 28 marzo, è stato rinviato a data da destinarsi, mentre il sindaco di Budapest ha vietato l’accesso ai parchi pubblici e reso obbligatorio l’utilizzo della mascherine a partire dal prossimo lunedì. Non si placano, intanto, le polemiche sulla decisione del Parlamento ungherese di concedere al primo ministro Orbán pieni poteri, a tempo illimitato, per gestire l’emergenza. La Commissione Europea dovrà decidere nelle prossime settimane se avviare una procedura d’infrazione contro l’Ungheria per violazione dello Stato di diritto, mentre è stata respinta dai vertici del Partito popolare europeo la proposta, avanzata da alcuni parlamentari, di espellere Fidesz, la formazione del premier ungherese. Più complesso il quadro in Romania, che con oltre 10.000 contagiati e quasi 600 decessi è il Paese più colpito dell’area. Più del 30% dei casi romeni è circoscritto alla provincia di Suceava, centro di 600.000 abitanti nel Nord del Paese, ribattezzato «la Lombardia romena ».

Un ruolo decisivo nella diffusione del virus lo avrebbe infatti giocato un operaio edile di 71 anni, da tempo residente in Italia, arrivato a Suceava in bus da Milano alla fine di febbraio, insieme alla moglie: decine di lavoratrici romene, soprattutto badanti rimaste senza lavoro, sono rientrate nel Paese nelle prime settimane di marzo, alimentando il contagio. Allerta ancora alta in Polonia, che ha preparato un piano in quattro fasi per la riapertura. La prima, partita il 20 aprile, ha visto la riapertura di parchi, piccoli negozi e chiese, dov’è ammessa una persona ogni 15 metri quadri. Sono però le imminenti elezioni presidenziali, previste per il 10 maggio, a tenere banco: una consultazione che Diritto e Giustizia (PiS), il partito al potere, non intende rimandare, nonostante le proteste di opposizione e istituzioni europee, che temono irregolarità mentre si sta vagliando l’ipotesi del voto per corrispondenza. Problematica, infine, la situazione in Russia, che registra 63.000 casi accertati, più della metà dei quali a Mosca. I numeri potrebbero essere molto più alti, se si considera che oltre il 70% dei tamponi è stato effettuato nella sola capitale.

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