E se dopo la «Guerra lampo» spuntasse una nuova Vichy?
sabato 26 febbraio 2022

«Chi è pronto a combattere con noi? Non vedo nessuno. L’Ucraina è stata lasciata sola a combattere la Russia…» Lo sfogo di Volodymyr Zelensky precede di poche ore l’offerta del presidente ucraino per un negoziato diretto con Mosca. Messaggio parzialmente accolto dal Cremlino, se pure con una precondizione assai pesante per Kiev: «Siamo pronti a inviare una delegazione a Minsk per discutere le modalità di un’Ucraina neutrale la cui demilitarizzazione sia una parte essenziale degli accordi». Parrebbe un passo avanti, uno spiraglio in grado di far tacere i cannoni e aprire il dialogo. Ma chi si fida più delle parole di Putin, di Lavrov, di quella Russia in guerra che mai avremmo immaginato e le cui mire, il limite entro il quale fermarsi ci è totalmente sconosciuto?

Più agevole forse ipotizzare quale possa essere il disegno del Cremlino, osservando attentamente la carta geografica dell’Ucraina, dove s’intravede senza difficoltà una falce che dal Donbass e le due repubbliche di Donetsk e Lugansk si estende al litorale di Mar d’Azov attraverso Mariupol fino a congiungersi con la Crimea, e da lì estendersi a sud fino a comprendere l’intera area costiera del Mar Nero fino a Odessa. Un graffio, un’unghia di ferro e di fuoco che potremmo chiamare il «Vallo di Vladimir»: il bottino finale cioè dell’invasione dell’Ucraina e la conclusione di una (per ora) fulminante campagna militare. Un Blitzkrieg, la Guerra lampo che ricorda qualcosa, per lo meno per alcune possibili conseguenze. Stiamo pensando a Henri-Philippe Pétain, il maresciallo di Francia che dal 1940 al 1942 fu a capo del governo collaborazionista con sede a Vichy che governò la parte meridionale della Francia occupata dai nazisti ricoprendo la carica di presidente fino al 1944. Anche nei piani di Putin l’Ucraina demilitarizzata e resa neutrale abbisogna di un presidente amico.

Meglio ancora se vassallo, come lo è Lukashenko. Una figura che Mosca non faticherebbe a trovare nel robusto mazzo di pretendenti alla successione di Zelensky, figura ormai buona solo per avviare un negoziato che negoziato non sarebbe mai, dal momento che si svolgerebbe tra l’autocrate di un Paese invasore e il rappresentante di un popolo ferito e sotto la minaccia delle armi. Solo così, con un ridisegno radicale della carta geografica e l’acquisto di un pezzo strategicamente pregiato della grande ex repubblica sovietica, si giustifica l’allestimento della più grande armata che abbia mai calcato i sentieri d’Europa dal 1945: aggiungere un tassello al disegno neo-imperiale di Putin che – non è difficile decifrarlo – vagheggia un ripristino integrale della corona di Paesi vassalli così com’erano all’epoca del Patto di Varsavia. Quegli stessi Paesi che all’indomani della dissoluzione dell’Urss avevano scelto con scarsa lungimiranza l’ombrello militare della Nato.

Immemori dell’esordio con cui Putin aveva fatto la sua comparsa sul proscenio internazionale domando la rivolta cecena a prezzo di decine di migliaia di vittime e della distruzione di Grozny. Ora lo spietato scenario di guerra si ripropone, con tutto il suo corteo di orrori, di profughi, di vite spezzate, di sovranità calpestate. Ora che è troppo tardi per porvi davvero rimedio.

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