sabato 22 ottobre 2011
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Come in una moderna riedizione del Re Lear, il lungo, brutale e sanguinoso regno di Muammar Gheddafi si è consumato in una fine altrettanto lenta, insanguinata e violenta. La sua morte, assieme a quella di altri suoi figli e fedelissimi, allontana lo spettro – più volte evocato – di "irachizzazione" dello scenario libico. È davvero improbabile che quanto resta del suo entourage voglia proseguire una lotta a oltranza contro i vincitori del Consiglio nazionale transitorio (Cnt). Ma come ci hanno insegnato le tormentati fasi successive ai conflitti di quest’ultimo decennio, ricostruire un Paese liberato dal suo tiranno non è compito facile. Tantomeno in Libia, ove le divisioni politiche e tribali si sommano a una disastrosa situazione istituzionale e amministrativa.Politica da ricostruireAnche prima della morte di Gheddafi le incognite più inquietanti sul futuro della Libia non venivano dai colpi di coda delle forze lealiste, quanto piuttosto dallo sforzo di evitare la trasformazione del Cnt in una nuova oligarchia – priva di responsabilità e rappresentanza – e allo stesso tempo dalle difficoltà di disarmare le molte milizie, dando vita a un governo di transizione che sia inclusivo delle diverse realtà e non costruito per escludere, o peggio punire, qualcuno. I problemi che hanno lacerato l’Iraq del dopo Saddam e l’Afghanistan post taleban, infatti, non sono derivati solo dalla guerriglia e dal terrorismo, ma dall’incapacità dei loro nuovi governi nel dare risposte ai problemi della popolazione e nel proporsi come attori credibili e rappresentativi. La promessa del premier provvisorio Mahmoud Jibril di dimettersi appena conclusa la pacificazione del Paese è positiva; sia perché l’uomo è inviso a molte forze interne al Cnt, sia perché testimonia la volontà di permettere una scelta dal basso dei nuovi vertici politici nazionali. Certo, sono promesse che vanno mantenute. Una battuta spesso ripetuta nelle società tribali è che "amministrare è più difficile che sparare": lo è sicuramente in Libia, dato che Gheddafi lascia dietro di sé delle strutture istituzionali e di governo assolutamente insufficienti.Lo «Shadow State»Il passato regime si basava sul governo diretto delle masse, la cosiddetta Jamahiriyya. Un’innovazione politica di cui Gheddafi era molto fiero. In realtà, dietro la retorica del popolo al potere si celava l’arbitrio di pochi e una struttura amministrativa assolutamente inconsistente. Di fatto, anche decisioni minime dovevano passare dalla scrivania del Colonello o dei suoi assistenti più fidati, con conseguenze disastrose sui progetti di sviluppo e di manutenzione delle infrastrutture civili. La mancanza di una solida struttura amministrativa è uno dei lasciti peggiori per il Cnt, dato che ne rallenterà l’opera di riavvio delle strutture statuali. Né, in verità, ci si può aspettare molto da questo consiglio formato in modo disparato da notabili della Cirenaica, ex membri del regime, rappresentanti tribali, islamici moderati, capi milizie. La vera scommessa è evitare che le differenze, le rivalità e le gelosie personali deflagrino con la scomparsa del nemico comune. Accanto a figure rispettabili come l’ex ministro della giustizia, Mustafa Mohammed Abdul Jalil, o a promotori dei diritti umani come Abdul Hafez Ghoga (rivale di Jibril), vi sono miliziani islamici come Abdel Hakim Belhaj, o i capi militari che hanno combattuto per lungo tempo a Misurata, ancora carichi di spirito vendicativo. Fondamentale sarà in ogni caso il rapporto con le principali tribù, arabe e berbere.Gheddafi, nel suo lunghissimo governo, si è appoggiato spesso alle tribù più vicine al suo potere, non esitando a scatenare violente repressioni contro quelle meno docili, in particolare utilizzando metodi efferati contro i berberi (una minoranza non-araba) del sud del Paese. Lo studioso Charles Tripp, parlando del rapporto privilegiato fra Saddam Hussein e le tribù irachene, aveva coniato il termine di "Shadow State", lo Stato ombra. Una definizione che calza anche per la Libia. Senza volerne enfatizzare il ruolo, è evidente come l’atteggiamento del nuovo governo transitorio verso le tribù risulterà decisivo per forgiare il futuro del Paese: bisogna innanzitutto evitare le "ritorsioni" politiche contro le tribù più vicine al passato regime; ma è altresì fondamentale tenere un atteggiamento bilanciato nel futuro ruolo da assegnare a queste strutture tradizionali. Sarebbe sciocco fingere che non abbiano un peso, ma occorre evitare che la loro pervasività di potere svuoti di significato la Costituzione che andrà scritta e le consultazioni elettorali che si dovrebbero tenere entro 18 mesi. Quanto ai berberi, la loro opposizione a Tripoli prescinde dal colore del governo: è fondamentale che si riconosca la specificità di questo popolo, da decenni oggetto di ostilità e persecuzioni nel Maghreb.L’incognita islamicaInfine, vi è la variabile del radicalismo islamico. Esponenti come Abudl Jalil dicono che la Libia è sempre stata uno stato musulmano moderato e che, in futuro, dovrà rimanere tale. Ma altri islamici radicali sono meno rassicuranti. Nei prossimi mesi si capiranno meglio il loro peso – oggi sono frammentati dalla repressione del precedente regime e volutamente poco visibili politicamente – ,le loro intenzioni e la loro forza militare, che ha il suo perno in Abdel Hakim Belhaj, comandante militare della piazza di Tripoli. Molti rapporti d’intelligence parlano di carichi d’armi, anche dei pericolosi missili anti-aerei Sam, di cui sono stati riforniti in queste settimane dai pretoriani del Colonnello, per fomentare disordini. Così come in Egitto e Tunisia, è probabile che scelgano di tenere un profilo basso, per non inquietare la comunità internazionale o i moderati libici, convinti però che il tempo giochi a loro favore. I Fratelli Musulmani locali hanno però già sottolineato come nessuna Costituzione possa essere accettabile, se non conterrà espliciti rimandi all’islam e alla sharia.Insomma, a più di otto mesi dall’inizio delle rivolte, la Libia si è liberata per sempre del suo dittatore. Ma la strada per un futuro stabile e liberale è ancora molto lunga e non priva di incognite. La fretta con cui la Nato ha detto che non rimarrà nel Paese lascia intendere le paure occidentali di restare impantanati in un altro terribile dopoguerra, e lascia i libici senza alibi: dovranno essere gli artefici del proprio destino.

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